Categoria: Educazione e Pedagogia

  • Sposarsi Oggi: Tra Scelte, Promesse e Nuovi Legami

    Sposarsi Oggi: Tra Scelte, Promesse e Nuovi Legami

    Cosa significa sposarsi oggi? Una riflessione personale e professionale sul significato del matrimonio oggi, tra cambiamenti culturali e nuove forme di legame.

    Cosa significa Sposarsi Oggi, nel ventunesimo secolo?

    C’è un momento nella vita in cui, anche se sei madre, pedagogista, o donna già passata attraverso un matrimonio, ti ritrovi a riflettere profondamente su cosa voglia dire sposarsi oggi.

    Sposarsi oggi non è più un gesto scontato, né un obbligo sociale.
    In un tempo dove tutto cambia velocemente, anche il significato del matrimonio si trasforma: le forme sono molteplici, le aspettative diverse, le promesse forse più consapevoli, ma anche più fragili.

    Da pedagogista, da madre, e da donna che ha attraversato il matrimonio e un divorzio, ho vissuto da vicino una recente esperienza familiare che mi ha portato a riflettere profondamente su questo tema.

    Ho deciso di scrivere questo articolo partendo da un sentire personale, da emozioni che mi hanno attraversata nell’ultimo anno, in seguito a una scelta importante vissuta in famiglia: un giovane adulto che, dopo aver costruito una relazione stabile e matura, ha deciso di sposarsi e consolidare quel legame davanti al mondo.

    Senza entrare nei dettagli privati — per rispetto delle vite altrui — vorrei accompagnarti in un percorso narrativo e riflessivo che unisce sguardo personale, osservazione professionale e ascolto del presente.

    Quel ‘per sempre’ che oggi ha nuove forme

    Quando parliamo di matrimonio, spesso pensiamo all’immagine che ne avevano i nostri genitori: una cerimonia in chiesa, una promessa per la vita, ruoli familiari ben distinti e un percorso quasi obbligato.
    Ma sposarsi oggi è qualcosa di molto più ampio, fluido e personale.

    Oggi ci si sposa più tardi, oppure si sceglie di non sposarsi affatto. Le motivazioni cambiano, così come le forme: c’è chi sceglie il rito religioso, chi quello civile, chi una cerimonia simbolica.
    Accanto alle coppie eterosessuali, troviamo unioni tra persone dello stesso sesso, famiglie ricostituite con figli di precedenti relazioni. Sono convivenze che si fondano su un progetto di vita comune, più che su convenzioni sociali.

    Secondo l’ISTAT, i matrimoni civili rappresentano oggi circa il 60% del totale in Italia, superando quelli religiosi.
    Crescono anche le unioni civili tra persone dello stesso sesso, con 3.019 casi nel 2023 (+7,3% rispetto all’anno precedente), mentre un numero crescente di coppie opta per la convivenza stabile, anche con figli, senza contrarre matrimonio.

    In questo scenario, il significato di Sposarsi Oggi cambia: non è più soltanto un contratto o una forma da rispettare, ma una promessa da vivere, quotidianamente, con consapevolezza.

    Sposarsi Oggi: Tra Scelte, Promesse e Nuovi Legami.Ecco l’infografica che rappresenta le principali tipologie di unione in Italia oggi, in linea con il paragrafo "Sposarsi oggi". I dati sono ispirati ai report ISTAT e adattati per chiarezza visiva:
60% matrimoni civili
30% matrimoni religiosi
8% convivenze dichiarate
2% unioni civili tra persone dello stesso sesso (fonte: ISTAT 2023)
    Sposarsi Oggi: Tra Scelte, Promesse e Nuovi Legami: Ecco l’infografica che rappresenta
    60% matrimoni civili
    30% matrimoni religiosi
    8% convivenze dichiarate
    2% unioni civili tra persone dello stesso sesso
    ⚠️ Le percentuali sono semplificate per chiarezza visiva e non sommano al 100% perché rappresentano le categorie principali più evidenti. I dati ufficiali completi sono disponibili nei link ISTAT sopra riportati.

    Una madre single che accompagna da lontano

    Ci sono passaggi della vita che, anche se non ci riguardano in prima persona, ci attraversano dentro.
    Quando mio figlio ha deciso di sposarsi, non ho provato nostalgia, ma qualcosa si è mosso nel profondo. Non era malinconia, ma una domanda che affiorava con dolcezza: “Cosa significa oggi promettersi a qualcuno?”

    Io, il matrimonio, l’ho vissuto in un tempo molto diverso. Ero giovane, piena di convinzioni e desideri, ma anche figlia di un’epoca in cui certe scelte erano quasi un passaggio obbligato.
    Si seguivano percorsi tracciati, spesso senza chiedersi troppo se ci assomigliassero davvero. Anche l’amore, allora, aveva un’altra narrazione: era fusione totale, sacrificio, dovere.
    A distanza di anni, guardando a quella parte della mia vita, riconosco il valore e anche i limiti di quel modello.

    La separazione è arrivata quando ho iniziato a sentire il bisogno di ascoltarmi di più. È stato il momento in cui ho smesso di aderire a un copione e ho cominciato a riscrivere il mio modo di essere donna, madre, persona.
    Da allora, ho camminato spesso da sola. Non per scelta radicale, ma per un misto di pudore, timore, dedizione. Ho messo tutto ciò che potevo nel crescere mio figlio, cercando di non fargli mai mancare presenza e sostegno.

    Ed è proprio per questo che, oggi, il suo matrimonio lo sento come un passaggio anche mio.
    L’ho accompagnato con discrezione, senza aspettative, con rispetto.
    Non per dare consigli, non per essere coinvolta in ogni dettaglio. Ma per esserci.
    In silenzio, ma profondamente presente.

    Sposarsi oggi: un atto di libertà condivisa

    Ai tempi del mio matrimonio, era spesso la famiglia d’origine a organizzare tutto: la cerimonia, il ricevimento, perfino la lista degli invitati. Un passaggio sociale, collettivo, approvato dagli adulti.

    Sposarsi oggi, invece, è un gesto che nasce e si costruisce sempre più spesso dentro la coppia stessa.

    I giovani adulti vivono già fuori casa, convivono, hanno figli. Quando decidono di sposarsi, non lo fanno per accontentare aspettative familiari, ma per dare forma pubblica a una scelta già interiorizzata. Se invece vivono ancora con i genitori, il matrimonio è spesso sostenuto da questi ultimi solo quando i figli sono molto giovani o non ancora indipendenti.

    Nelle coppie dello stesso sesso o nei secondi matrimoni, il significato si fa ancora più consapevole: scegliere il luogo, le persone, il momento diventa un atto simbolico, che rende omaggio a chi ha sostenuto quella relazione, l’ha riconosciuta, l’ha custodita.

    Sposarsi oggi è questo: una scelta che ha il sapore della libertà.
    Una promessa che non pretende perfezione, ma responsabilità.
    E’ una festa costruita con chi c’è davvero. Non più solo zii e cugini lontani, ma amici intimi, fratelli del cuore, compagni di viaggio.
    Quelli che ci sono stati. E che ci saranno ancora.

    Sposarsi oggi: parole nuove per una promessa che cambia

    Oggi le promesse nuziali non sono più solo parole poetiche e sacre o religiose da pronunciare sull’altare.
    Sono spesso frutto di un cammino già condiviso, fatto di quotidianità, di esperienze vissute, a volte anche di figli già nati.
    Ci si sposa già cambiati. E questo non toglie valore all’impegno, anzi. Lo rende più vero.

    Lì dove un tempo si prometteva “per sempre” con l’ingenuità di chi crede che basti l’amore a sostenere tutto, oggi si promette “ogni giorno”, con la consapevolezza che l’amore ha bisogno di manutenzione.
    Di parole giuste, silenzi rispettosi, cura e attenzione.

    Cosa resta, allora, del matrimonio?
    Resta la Volontà, la Determinazione.

    Resta il desiderio profondo di dire: “Io ci sono. Per te. Con te.”
    Resta la scelta quotidiana di non fuggire. Di non dare tutto per scontato.
    Di esserci, anche nei giorni stanchi. Anche quando è più facile rinunciare.

    E forse, proprio in un tempo incerto come quello in cui viviamo, sposarsi oggi è un atto di fiducia radicale.
    Un modo per dire, senza troppe parole, nonostante tutto, io credo ancora nell’amore.

    Sposarsi Oggi: Tra Scelte, Promesse e Nuovi Legami: bouquet
    Sposarsi oggi: parole nuove per una promessa che cambia

    Essere testimoni silenziosi: il ruolo dei genitori oggi

    Tornando alla motivazione che mi ha spinta a scrivere questo articolo, voglio concludere così:

    In quel giorno speciale ho scelto di non essere protagonista, ma testimone silenzioso.
    Li ho osservati con amore, rispetto e dedizione. Con il cuore aperto a ciò che stava accadendo.
    Non ho rivissuto il passato, pur trovandomi accanto al padre di mio figlio.
    Invece ho provato una gioia profonda nel vedere nostro figlio, il frutto di quella unione, lì accanto alla donna che ha scelto per la sua vita.
    Ho accolto il presente con consapevolezza.

    E nel vedere nascere una nuova famiglia, mi sono detta che ci sono storie che meritano di essere raccontate.

    Perché ogni passaggio importante della vita lascia un segno.
    E quando abbiamo il coraggio di fermarci, ascoltarlo e narrarlo, quel segno può diventare luce. Per noi. Per chi verrà dopo.


    👉 Raccontare ciò che ha valore per noi: una scelta di cura, di amore verso se stessi

    Ci sono passaggi della vita che lasciano un segno profondo: matrimoni, nascite, separazioni, riconciliazioni, decisioni che cambiano il corso delle cose.

    Fermarsi a raccontarli, raccoglierli, custodirli… è un atto d’amore verso di sé e verso chi verrà dopo di noi.

    Le Biografie Pedagogiche sono uno spazio intimo e rispettoso in cui dare voce ai ricordi, ai legami, ai significati che spesso restano silenziosi. Un’occasione per riconoscere valore alla propria storia e trasformarla in memoria viva.

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  • Il Valore delle Fiabe che educano all’Immagine Creativa

    Il Valore delle Fiabe che educano all’Immagine Creativa

    Rosa Rita Formica ci accompagna nel mondo delle fiabe, tra creatività, memoria e immagini che educano. Una voce autentica che arriva dritta al cuore.

    Ho conosciuto Rosa Rita Formica nel 2008, durante un incontro tra pedagogisti. Da allora è nata un’amicizia preziosa, che si è intrecciata nel tempo tra vita professionale e personale. In questi 17 anni abbiamo attraversato cambiamenti, evoluzioni, nuovi inizi. Ma, come dico spesso, siamo cresciute insieme: confrontandoci, sostenendoci, anche da punti di vista diversi. Abbiamo scelto di coltivare questa relazione con cura, rispetto e stima reciproca.

    Con le Biografie Pedagogiche desidero dare voce a storie autentiche, capaci di lasciare un segno: racconti di vite vissute con intensità, che ispirano e aprono nuove prospettive. Pensare a Rosa Rita è stato naturale. Ho sempre ammirato il suo lavoro, la sua visione narrativa, il modo in cui trasforma la fiaba in un linguaggio educativo. Sono felice e grata di aver raccolto un frammento della sua esperienza, e di poterlo condividere oggi con rispetto e riconoscenza.

    Il Valore delle Fiabe che curano Educazione all'Immagine. Le due Amiche
    Il Valore delle Fiabe che curano Educazione all’Immagine. Amicizia e Pedagogia

    Le Radici della Narrazione

    Rosa Rita Formica: Oggi sono una donna di 58 anni. Sento di avere alle spalle un vissuto ricco, personale e professionale, un bagaglio che mi ha forgiata. Ma, allo stesso tempo, percepisco che quell’esperienza è lì, dietro di me: non nel senso che non conti più, anzi, ma come se fosse la base che sostiene il mio presente, mentre io mi apro con curiosità a tutto ciò che è nuovo, con lo sguardo di una bambina.

    Sono un’adulta con delle consapevolezze, certo, ma anche con un desiderio – più che un tentativo – di tornare bambina. E quindi accolgo con entusiasmo questa tua proposta, che in parte abbiamo già condiviso in altri modi, ma che oggi vivo con una gioia diversa. Per me l’entusiasmo è davvero il motore: è ciò che mi muove.

    Recuperare la creatività, lo spirito bambino, il contatto con la natura, la condivisione… sono questi gli elementi che oggi mi definiscono. Cerco sempre più di vivere in autenticità, di entrare in relazione vera con gli altri. Ma non è sempre facile. Per molto tempo ho cercato di mostrare solo la mia parte “a posto”, quella che funziona. Ora sto imparando, passo dopo passo, a portare anche le mie fragilità. Non è immediato, ma ci provo… perché ci credo.

    L’Origine della Scrittura: Fiabe e Filastrocche come Voce Interiore

    Rosa Rita Formica: Scrivere fiabe mi accompagna da sempre. Già da bambina mi venne naturale creare un piccolo libretto illustrato con le mie prime storie e disegni: lo conservo ancora oggi nel mio studio, e spesso lo mostro ai clienti quando propongo letture fiabesche. È un ritorno alle origini, al mio mondo parallelo.

    Scrivere, da piccola, era il mio modo per evadere da un contesto familiare severo, com’era comune in quegli anni. Le fiabe erano lo spazio in cui potevo giocare, trasformare, respirare.

    La narrazione è sempre stata una compagna, anche nel mio lavoro in ambito psichiatrico, dove ascoltare le storie delle persone era centrale. Una svolta importante è arrivata con la fiaba La Vecchia Igea e gli Amici del Bosco , scritta dopo la diagnosi di celiachia di mia figlia: è stata un modo affettivo e simbolico per affrontare insieme quella difficoltà. Da lì, la fiaba è diventata uno strumento anche nella mia genitorialità e, in seguito, nella mia professione educativa.

    L’Ispirazione quotidiana: quando sono le Fiabe a trovare Te

    Rosa Rita Formica: Hai toccato un tasto importante. Le fiabe non le cerco io: sono loro che trovano me. Arrivano nei momenti più impensati — quando sono immersa nella natura o, spesso, nel cuore della notte. Mi sveglio, prendo un taccuino e inizio a scrivere. Ormai mio marito lo sa: accendo la luce e annoto parole mentre tutto intorno è silenzioso. È come una connessione profonda con ciò che sto vivendo, con immagini che mi hanno colpita durante il giorno, con emozioni che mi attraversano o frammenti della mia storia.

    Scrivo per intuizione: qualcosa si manifesta, e in pochissimo tempo la fiaba prende forma, quasi da sola. È un pensiero divergente che si accende all’improvviso, un messaggio che chiede di uscire.

    Una fiaba del cuore

    Una fiaba a cui sono particolarmente legata è L’Aquila del giorno e l’Aquila della notte. Racconta di due animali simbolici per me: l’aquila e la civetta, che vivono in due mondi diversi — la luce e il buio — e si incontrano nel momento del passaggio, quando la notte cede il passo al giorno. Questo incontro avviene all’alba, il momento più luminoso della giornata. Nella fiaba, l’aquila della notte lascia spazio all’aquila del giorno: è come un passaggio di consegne.

    Il Valore delle Fiabe che curano Educazione all'Immagine l'Aquila del giorno e della notte
    Aquila del giorno e della notte

    Questa storia rappresenta profondamente il mio cammino personale: è il modo in cui ho imparato a riconoscere le mie ombre e a portarle in luce, senza rinnegarle. Non siamo solo luce o solo buio — entrambe le parti hanno un valore, e solo integrandole possiamo sentirci interi. Quei due uccelli, per me, raccontano l’essere umano nella sua totalità e la mia continua ricerca di equilibrio.

    L’illustrazione di questa fiaba, realizzata da mia figlia quando partecipai a un concorso, è diventata il simbolo della mia pagina Facebook Fiabe e racconti. Educare alle immagini creative. La tengo nel mio studio, proprio davanti alla scrivania. È lì, ogni giorno, a ricordarmi chi sono.

    Il Valore Pedagogico della Fiaba: un Ponte tra Mondi

    Rosa Rita Formica: È una domanda complessa, ma provo a sintetizzare. Per me la fiaba è un ponte relazionale. Se un genitore riesce a leggerla — o addirittura a scriverla — e un bambino ad ascoltarla o idearla, si crea una connessione profonda tra generazioni, tra grande e piccolo, tra mondo interiore e realtà. È un movimento affettivo, un traghettamento con un grande valore educativo.

    Entrare in una fiaba è come varcare la soglia di un bosco immaginario: non sai esattamente cosa troverai, ma qualcosa si muove, si scioglie. Le fiabe agiscono sui nodi interiori, su ciò che è rimasto inespresso, su ricordi lontani. E lo fanno con delicatezza, attraverso immagini e parole che toccano senza invadere.

    Per questo, spesso nei miei percorsi con i genitori chiedo: qual è la vostra fiaba interiore? Quella che vi ha accompagnato da piccoli? E come la riscrivereste oggi? È un modo per riscoprire radici, appartenenza, fiducia. Ogni famiglia custodisce una narrazione preziosa.

    Oggi, con gli albi illustrati, la forza della fiaba si amplifica: parola e immagine si intrecciano, diventando ancora più educative. Anche i Silent Book, senza testo, riescono a raccontare moltissimo. L’immagine educa la parola e la parola dà senso all’immagine.

    Penso, ad esempio, alla fiaba La Vecchia Igea e gli Amici del Bosco realizzata da AIC Lombardia APS. Il suo valore non è solo nella scrittura, ma anche nelle illustrazioni di Linda Cudicio, psicologa e arte terapeuta. Insieme abbiamo dato vita a una storia che ha parlato al cuore di molte persone.

    Le Fiabe come trasmissione di Memoria

    Rosa Rita Formica: Uno dei valori che sento più forti nella fiaba — ma anche nella narrazione in generale — è la capacità di custodire e trasmettere memoria. Nei miei percorsi invito spesso i genitori a recuperare le fiabe della loro infanzia: racconti tramandati, storie familiari che hanno lasciato un’impronta profonda.

    Come fai tu con le Biografie Pedagogiche, credo che ogni famiglia possieda un patrimonio narrativo prezioso, anche semplice, magari orale, ma capace di costruire appartenenza.

    Rileggere, riscrivere o semplicemente ricordare quelle storie diventa un atto educativo e affettivo: unisce passato e presente, adulti e bambini, e ridà voce a ciò che ci ha formato. Le fiabe, in questo senso, parlano a ogni parte di noi, a ogni età.

    Progetti in corso: Fiabe, Natura e Nuove pubblicazioni

    Rosa Rita Formica: In questo momento sto dedicando molte energie a Casa Gemma, il mio progetto di accoglienza a Cividale del Friuli. Nei mesi estivi accompagno famiglie e bambini con letture, fiabe, e a volte li invito anche a inventarne una. Abbiamo una piccola biblioteca con testi per bambini e genitori, anche in più lingue. Qualcuno arriva con i propri libri da casa, e spesso bastano le immagini a raccontare.

    A Casa Gemma c’è anche un personaggio simbolico: il Vecchio Nano Saggio. I bambini gli parlano, gli lasciano storie, lo coinvolgono nei loro giochi. È un modo semplice ma potente per alimentare la fantasia e sentirsi accolti.

    Il Valore delle Fiabe che curano Educazione all'Immagine - gnomo del giardino
    Il Vecchio Nano Saggio

    Sto lavorando alla pubblicazione di Birba Bir, una fiaba molto personale. Racconta di una bambina con un fiocco in testa e una gonna a pieghe, che sogna però di “sporcarsi” nel fango delle pozzanghere. Ama profondamente la Natura, da cui impara ogni giorno. Birba è un personaggio libero, istintivo — ispirato in parte ai protagonisti dell’autrice svedese Astrid Lindgren, come Pippi Calzelunghe, Emil e Vacanze nell’isola dei gabbiani, che ho amato da bambina.

    Accanto a questa storia, sto scrivendo Piccoli sassolini nel bosco: una guida poetica e pedagogica per vivere la natura con consapevolezza. Ogni “sassolino” è uno spunto per fermarsi, osservare, ascoltare. Il testo accompagnerà l’uscita di Birba Bir.

    Non smetto mai di scrivere: alcune fiabe restano nel cassetto, ma so che prima o poi troveranno la loro strada.

    Nuovi Linguaggi: la Scrittura oltre la carta

    Rosa Rita Formica: Beh, sì… anche se mi definisco un po’ “boschiva”, un po’ ribelle. Chi mi conosce lo sa: amo i boschi e le storie raccontate a voce bassa, vicino al fuoco. Ma resto estremamente curiosa — ed è proprio la curiosità che continua a salvarmi.

    Tutto quello che ho imparato sul digitale l’ho fatto da autodidatta. Quindi la risposta è: sì, perché no? Se trovassi una guida che mi accompagni, mi piacerebbe trasformare alcune fiabe in letture ad alta voce, podcast, magari anche piccoli video. Ogni linguaggio ha il suo valore e può diventare un modo nuovo per far arrivare le storie, per condividerle con altri cuori e altre menti.

    E poi, come ti dicevo, ho 58 anni ma continuo a sentirmi bambina dentro. Finché c’è curiosità, non si invecchia mai.

    Presenza Online: Autenticità, Ascolto e Semi di Bellezza

    Rosa Rita Formica: Uso i social in modo spontaneo, soprattutto Instagram e un po’ LinkedIn. Mi hanno permesso di incontrare persone e storie che hanno arricchito il mio cammino. Ma non scrivo per insegnare: se pubblico un pensiero è perché in quel momento lo sto vivendo.

    A volte qualcuno mi scrive: “Quella frase mi ha parlato”. E io rispondo: “L’ho scritta per me. Se ti ha toccato, forse stiamo attraversando qualcosa di simile”. Credo che la condivisione più autentica nasca così: senza forzature, con il solo desiderio di vicinanza.

    Cerco di non pubblicare contenuti pesanti. Amo la natura, la luce, i piccoli dettagli che sanno custodire bellezza. Una foglia, un colore, un’ombra: sono questi i semi che lascio, giorno dopo giorno.

    Se potessi lasciare un messaggio a chi mi incontra online direi: in ognuno di noi ci sono gemme preziose, a volte invisibili. Nulla è mai completamente conosciuto. Serve ascolto, pensiero divergente, voglia di scoperta. Perché ogni incontro, se vissuto con apertura, è sempre un dono reciproco.

    Una frase e una Fiaba per chi legge

    Rosa Rita Formica: In questo momento mi accompagnano due frasi che sento profondamente

    Lascia andare ciò che vuole andare. Rimani con ciò che rimane.

    Oltre i torti e le ragioni, ritroviamoci al di là.

    Parlano di accoglienza, di presenza, di possibilità. Sono piccoli fari che mi guidano quando tutto sembra confuso.

    Per me, la scrittura è sempre uno scambio. Ogni fiaba che nasce porta con sé un seme. E se trova accoglienza, può germogliare nel cuore di chi legge.

    Scrivere fiabe resta, ancora oggi,

    il mio modo giocoso e profondo per abitare il mondo.

    Alcune Pubblicazioni Fiabe Rosa Rita Formica

    Il Valore delle Fiabe che curano Educazione all'Immagine La vecchia Igea
    La vecchia Igea e gli amici del Bosco

    Biografie Pedagogiche: ascoltarsi, rileggersi, ritrovarsi

    Al termine dell’intervista, Rosa Rita ha pronunciato una frase che racchiude il senso più profondo di questo scambio:

    “Sono interviste che permettono di focalizzare un po’ dove sei. Parli a ruota libera, ma qualcosa si chiarisce, qualcosa di vero emerge.”


    Ed è proprio questo l’obiettivo delle Biografie Pedagogiche: offrire uno spazio per fermarsi, raccontarsi, ascoltarsi mentre si parla… e poi rileggersi con occhi nuovi.

    Quando pubblicate, queste interviste possono ispirare altre persone. Ma possono anche diventare un percorso privato e riservato, in cui la pedagogista accoglie il tuo racconto, lo trascrive, e te lo restituisce sotto forma di un testo scritto. Una volta riletto insieme, quel testo apre la strada a nuove consapevolezze, intrecci di senso e direzioni possibili.

    📌 Se senti che è il momento giusto per raccontare un tuo passaggio di vita, puoi prenotare un incontro con me nell’area appuntamenti del sito oppure cliccando qui:

    👉 Perché raccontarsi non è solo ricordare: è anche ritrovarsi.

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  • Rinascita di Simone:  Unione tra Zen Shiatsu e Amore

    Rinascita di Simone: Unione tra Zen Shiatsu e Amore

    Rinascita di Simone: unione tra Zen Shiatsu e Amore. Dopo un incidente in moto ha perso la vista, ma ha ritrovato il coraggio di vivere pienamente.

    Questa intervista è stata realizzata seguendo il metodo delle Biografie Pedagogiche: un approccio narrativo e relazionale che dà voce alle persone, valorizzando i loro vissuti, le memorie, le trasformazioni.

    Ho voluto incontrare Simone dopo che mio cognato Fausto, il tassista mi aveva raccontato del suo entusiasmo nel leggere la sua storia e del desiderio di raccontare anche la propria.
    Mi ha colpito subito l’idea che un’altra vita, apparentemente molto diversa, potesse entrare in risonanza e generare connessione.

    È stato un sabato pomeriggio qualunque. Ci siamo sentiti, e poche ore dopo ero già a casa di Simone e Claudia, accolta da entrambi con gentilezza e ospitalità.

    Quella che ho ascoltato è una storia ricca di colpi di scena e coincidenze.
    Una storia di vita di quelle che non si dimenticano.
    Intrisa di pathos, resilienza, amore e forza di andare avanti.

    Un insegnamento per tutti noi.
    Forse sarà ancora più intensa per chi ha già conosciuto la sofferenza, per chi non si ferma alla superficie ma ha imparato ad andare in profondità, dentro di sé e nelle vite degli altri

    Auguro a tutti una buona lettura, in compagnia di Simone: un uomo che ha scelto di raccontarsi con autenticità e con sincero coraggio del cuore.

    Ci ritroveremo alla conclusione.

    L’Identità di oggi: Simone

    Simone: Molte persone, quando ascoltano la mia storia, mi dicono: “Se fossi stato al tuo posto, mi sarei arreso.”
    E invece no. Mi chiamano miracolato. E forse lo sono. Ma prima di tutto sono una persona con un carattere molto forte.

    Non lo sapevo, prima. Prima di perdere la vista non immaginavo nemmeno di avere dentro di me tanta forza.
    Sono rinato nel 2006. Avevo già spiccato il volo verso una vita benestante, poi il destino ha tracciato per me un’altra rotta. Mi ha tagliato le ali.
    Mi sono risvegliato in ospedale e ho dovuto ricominciare tutto da capo.

    E posso dirlo: oggi, forse, avrei quasi paura a riprendere a vedere. Perché nella condizione in cui sono adesso, io mi sento bene.

    Nel quotidiano? Ho avuto la fortuna di seminare bene. Ho sempre coltivato le amicizie con sincerità. Non ho scheletri nell’armadio, e quello che ho dato, in qualche modo, mi è tornato indietro.
    Ci sono tante persone che mi stanno vicino. E poi ho avuto la fortuna di incontrare mia moglie Claudia: dall’altra parte del mondo, con una lingua e una cultura diversa. È stato l’Amore, quello vero, a unirci e a guidarci. E insieme abbiamo creato una famiglia con una figlia fantastica, Susanna.

    Ogni giorno lo affronto con gratitudine e presenza. Perché la vita va vissuta pienamente, e ogni attimo può essere un dono… se ci metti Amore.

    La trasformazione: prima l’incidente

    Simone: Prima dell’incidente… oggi direbbero che ero un nerd. Mi appassionava tutto quello che veniva dal Giappone: noi degli anni ’70 siamo cresciuti con i loro cartoni, le loro tecnologie, i videogiochi.
    Amavo i computer, la grafica… avevo una macchina giapponese, ovviamente! Il mio sogno era andare in Giappone. Era il mio obiettivo di vita.

    Mi piaceva anche rendere felici gli amici con piccole attenzioni. Era la mia motivazione, non so come spiegarlo. Era il mio modo di esprimere affetto e amore, attraverso gesti semplici ma sinceri. Alcuni mi dicevano: “In certi contesti esageri,” ed io rispondevo: “Si vive una volta sola, e se non faccio male a nessuno, perché trattenermi?”

    Mi sono diplomato in ragioneria come analista contabile, ma ho poi studiato anche grafica e Photoshop all’Istituto Europeo del Design. Ho sempre avuto tanti interessi. Sono multitasking e ancora oggi: faccio impianti audio, gestisco il mio telefono in autonomia. Non mi sono mai fatto fermare dalle difficoltà.

    ….e dopo l’incidente

    Simone: L’incidente è avvenuto nel novembre 2005, proprio il giorno in cui avevo ritirato il “bollettone” per la licenza da tassista.
    Stavo andando a prendere dei biglietti per un viaggio a Zanzibar. Scelsi la moto, non la macchina. Poi… tutto cambiò in un istante.

    Una Citroën XM Station Wagon si mise di traverso sulla strada. Tentai di evitarla, frenai, ma l’impatto fu violentissimo.
    Sbattei la testa, il gomito, il ginocchio, le costole. Il manubrio mi lesionò la vena del mesentere.
    Mi hanno salvato per miracolo: un’automedica passava di lì per caso. Fui intubato e trasportato d’urgenza al Niguarda. Senza quell’intervento immediato, sarei morto dissanguato.

    Ho subito 14 operazioni all’intestino. Oggi ho un tratto intestinale di appena 70 cm, contro i 9 metri normali.
    Per mesi ho vissuto grazie alla nutrizione parenterale, con un ago nel petto da cambiare ogni cinque giorni.
    Una dottoressa straordinaria, credette in me. Provò a farmi tornare a nutrirmi per bocca — e ci riuscì.
    Diceva: “Non ho mai visto nessuno reagire così.”

    Mi ha persino chiesto il permesso di raccontare la mia storia in un libro. Ma non l’ho mai nè ritirato nè letto.
    Forse perché, in quel momento, volevo solo tornare a casa. Tornare a una parvenza di vita. Tornare dove ci fosse anche solo un riflesso d’amore.

    L’oscurità e la luce

    Simone: Era febbraio 2006. Mi svegliai dal coma farmacologico. Ero confuso, sotto morfina… pensavo di essere al mare. Mia madre cercava di spiegarmi piano piano la realtà.

    I medici dicevano: “Per ora sei non vedente, ma forse a ottobre potresti riprendere un po’ a vedere, anche solo sfocato.” Mi hanno un po’ illuso.

    Poi, nel tempo, ho girato vari centri, sperando in una risposta diversa. A Ginevra, invece, sono stati molto chiari: “C’è un’atrofia del nervo ottico. Potremmo trovare qualcosa tra dieci, quindici anni… forse.”

    E lì ho capito. Ma non mi sono buttato giù.

    Ho iniziato a cercare altro. Una nuova prospettiva. E con fatica, ho trasformato l’oscurità in un’occasione per guardarmi dentro. Per riconoscere ciò che davvero conta: la forza, le relazioni, l’amore per la vita stessa.

    Rinascita di Simone: unione tra Zen Shiatsu e Amore. Dopo un incidente in moto ha perso la vista, ma ha ritrovato il coraggio di vivere pienamente.
    Rinascita di Simone: unione tra Zen Shiatsu e Amore. Uno sguardo che ascolta. E rivela.

    Reinventarsi: riprogettare la vita

    Simone: Io sono una persona che non sa stare fermo.

    Prima dell’incidente lavoravo nel CED di un’azienda, la Verde Blu, a Rho. Non era un lavoro da scrivania: avevo una certa libertà, uscivo anche con gli operatori, facevo i controlli, mi tenevo attivo.

    Poi, nell’agosto 2006, mi ritrovai a casa, senza poter più fare quello che facevo prima. E lì capìì che dovevo trovare un modo per tenermi impegnato, per non lasciarmi andare.

    All’inizio ero spaesato. Avevo passato mesi in ospedale, e in seguito ebbi anche una crisi epilettica. Nel 2010 lasciai la mia ex compagna dopo una relazione lunga. Non era più la strada giusta, mancava l’amore.

    E così ho cominciato a guardarmi dentro e a pensare davvero a come reinventarmi.

    Ho investito con attenzione i soldi dell’assicurazione, ho comprato casa. E ho iniziato a chiedermi, con coraggio e voglia di riscatto:
    “Cosa posso fare ora? Cosa posso imparare di nuovo?

    Il cammino verso lo Zen Shiatsu

    Simone: Bellissimo questo… Lo Zen Shiatsu è arrivato proprio quando non sapevo più che direzione prendere. Un momento sospeso, in cui cercavo qualcosa che avesse senso.

    È stata una mia amica a parlarmene. Mi disse che stava frequentando una scuola di Zen Shiatsu a Milano e che aveva chiesto al suo maestro se avrei potuto partecipare, anche se non vedente. Lui rispose subito: “Ma certo! Deve venire”.
    Il maestro si chiama Carlo Tetsugen Serra – vuol dire “fonte di ferro” – e arrivava da un’esperienza monastica. In lui percepii subito quella calma profonda, quell’autenticità che mi serviva in quel momento.

    Iniziai il percorso senza sapere dove mi avrebbe portato, ma sentivo che lì c’era una possibilità di cura, e forse anche di amore verso me stesso.

    Uno spazio di percezione nuova

    Simone: La cosa straordinaria? I primi a praticare lo Shiatsu erano proprio i non vedenti. Nacque in Cina, con il nome di Anma, poi si diffuse in Giappone. Alcuni praticanti furono esclusi per mancanza di rispetto verso il corpo dell’altro, ma chi proseguì con disciplina e integrità ha mantenuto vivo un cammino fatto di ascolto profondo e attenzione per l’altro.

    Io ho studiato seguendo il metodo di Masunaga, uno dei grandi maestri. E devo essere sincero: ero e sono avvantaggiato. Non perché non vedo, ma perché sento di più. È un’altra forma di percezione, più sottile, più profonda.

    Simone: Esatto! È incredibile, no?
    Il Giappone era il mio sogno prima dell’incidente… e lo Zen Shiatsu me l’ha riportato nella mia vita, in un modo del tutto inaspettato.

    Non ci sono mai stato fisicamente, ma è come se ci fossi arrivato spiritualmente.
    E poi quella scuola era davvero speciale: il monastero dove si facevano le lezioni era tutto in legno, con pavimenti in tatami, pareti scorrevoli di carta di riso, e silenzio. Solo tè caldo, meditazione e voce bassa.
    Uscire da lì era come svegliarsi da un’altra dimensione.

    Zen Shiatsu

    Simone: Ho studiato per tre anni, presi il diploma di operatore Zen Shaitsu nel 2013. Per imparare, devi prima ricevere. Facevamo esercizi, ci scambiavamo i trattamenti…
    Io, lo ammetto, a metà del kata mi addormentavo. Lo Shiatsu ti rilassa così tanto che… anche quando lo pratico sugli altri, glielo dico sempre: “Beato te che lo ricevi!”

    È una pratica profonda, che non smetti mai di esplorare. Ha radici buddhiste. C’è un libro che amo, “Le 101 storie Zen”: Racconta la vita nella sua essenza più semplice, più vera.
    Lo Shiatsu mi ha insegnato a rallentare, ad ascoltare davvero, a rispettare i ritmi della persona. E soprattutto, mi ha insegnato un amore e rispetto profondo per il corpo umano, inteso come spazio di ascolto e di presenza.

    Quando uscivo dal monastero, non volevo rientrare subito nella confusione della città. Era come se lì dentro si respirasse un altro mondo, fatto di silenzio, cura, e presenza.

    Simone: Assolutamente sì.
    E sai perché? Perché io mi sento come se fossi dietro una parete: voi mi vedete, ma io non vi vedo. E questo cambia tutto.

    Non ho più vergogna. Non mi agito. Anche quando mi hanno intervistato in radio, ero tranquillo.
    Il mio modo di percepire gli altri passa attraverso il corpo, il contatto, l’energia. E nello Shiatsu questa sensibilità ha un valore enorme. È lì che l’amore per l’altro diventa gesto concreto, ascolto puro.

    La mia passione oggi

    Simone: Quando pratico lo Zen Shiatsu, cerco di creare uno spazio intimo, dove il tempo rallenta e tutto si fa più silenzioso. Chi si affida a me ha bisogno di ascolto, di rispetto. Ogni corpo parla una lingua unica, e io provo a comprenderla con le mani.

    Spesso, dopo il trattamento, le persone restano sul futon. Alcuni si aprono, raccontano. Altri si abbandonano a un sonno profondo. È un incontro di energie, di fiducia reciproca, di presenza autentica.

    Non è solo una sequenza tecnica: è un dialogo silenzioso. Uso le mani, i pollici, il corpo intero. Mi muovo in posizioni precise — seiza, arciere, mezzo arciere, birmana — che permettono di entrare in relazione profonda con la persona.
    Ogni gesto ha un’intenzione, ogni pressione una direzione. Mentre lavoro, ascolto. E ogni volta, imparo qualcosa.
    Perché nel corpo dell’altro si nasconde sempre una storia. E il mio compito è accoglierla, con rispetto e amore.

    Il mio modo di “vedere” passa tutto dal tocco. Anche senza parole, so riconoscere se c’è una tensione, una ferita, un trauma.
    Questo contatto crea un legame discreto ma forte, fatto di cura e autenticità.

    Certo, all’inizio mi sembrava impossibile memorizzare tutti i kata, le posizioni, le sequenze… Ma quando qualcosa ti appassiona davvero, ti insegna anche la costanza. E ti resta dentro.

    L’incontro con l’amore e la nascita di una famiglia

    Simone: È una storia assurda. In Colombia non volevo neanche andarci.
    Ma un amico, Alessandro, che viveva là da anni, continuava a dirmi: “Devi conoscere Patty, Ricordati Patty!”
    Alla fine, in estate 2015, sono partito davvero. Prima sono stato in Messico, poi da lui a Medellín. L’ho conosciuta lì, verso fine giugno.

    Ci siamo visti poco di persona, perché lei lavorava tantissimo. Ma in quei pochi incontri c’era qualcosa che mi colpiva: era riservata, non facile. Aveva dignità.
    Le ho fatto un trattamento di zen shiatsu, ed è stato il nostro primo vero contatto.

    A fine agosto sono rientrato in Italia. E da lì abbiamo iniziato a sentirci tutti i giorni su Skype. Tutti i giorni.
    Non ci capivamo perfettamente con le parole, ma ci capivamo lo stesso. È quello che chiamo “linguaggio dell’amore”.

    A dicembre le ho chiesto di sposarmi.

    Rinascita di Simone: Amore tra Simone e Claudia

    Amore, Simone e Claudia: una rinascita condivisa

    Simone: Susanna significa “fior di loto”. Ma la cosa incredibile è un’altra: mia madre aveva sempre sognato di avere una figlia e di chiamarla così. E un altro nome che le piaceva era Patrizia.

    Alla fine, ha avuto due figli maschi: io e mio fratello Stefano. La vita comunque le ha fatto un dono inatteso. Mia moglie si chiama Claudia Patrizia. E nostra figlia si chiama Susanna.

    Mia madre è stata al settimo cielo. In un colpo solo ha avuto le due figlie che aveva sempre desiderato: la nuora e la nipote, con i nomi che custodiva nel cuore da una vita.

    Simone: La paternità ti cambia. Quando tieni tra le braccia un essere vivente da proteggere, capisci che non è più solo la tua vita. Diventi responsabile. Oggi sento che devo durare il più possibile, per lei. Perché l’amore di un padre passa anche da questo: proteggere.

    Cosa voglio trasmetterle?
    Educazione, rispetto, umiltà. Che impari ad essere generosa e anche discreta, che non viva per apparire, ma per essere.

    Io e mia moglie cerchiamo ogni giorno di farle capire che il vero valore non è in ciò che si mostra, ma in ciò che si dona con amore.

    Lei è un po’ vanitosa, le piace sentirsi bella, e va bene così.

    “Puoi brillare, sì, ma non per quello che mostri. Brilla per quello che sei.”

    Rinascita di Simone: unione tra Zen Shiatsu e Amore. Dopo un incidente in moto ha perso la vista, ma ha ritrovato il coraggio di vivere pienamente. Unione di sguardi
    Amore e Complicità in uno sguardo

    Uno sguardo sul futuro

    Simone: Direi: Guarda me.
    Guarda la mia situazione. Ascoltala bene. Perché a volte ci lamentiamo per cose piccole, ma se ti fermi un attimo a vedere quello che altri vivono… cambia la prospettiva.

    Io lo dico anche agli amici, quelli che mi raccontano problemi con la mamma o con la moglie: “Guarda me.”
    Perché il primo problema siamo noi stessi. Se tu hai un conflitto, inizia da te.
    La soluzione non è scappare. È parlare. È dialogare, sempre.

    E poi bisogna aver voglia di vivere.
    Perché dal momento in cui nasci, sai che prima o poi morirai. Allora tanto vale vivere il più possibile, bene.
    Essere positivi, fare le cose, provarci.
    Se parti pensando “non ce la faccio”, non ce la farai mai.


    Ma se hai fame di Vivere, se dici
    “Voglio, posso, ci provo”,
    allora qualcosa succede. Sempre.

    La storia di Simone ci insegna che anche quando la luce viene meno, è possibile vedere più a fondo. Con il corpo, cuore, Amore.

    Ogni esistenza porta in sé una forza invisibile, che merita di essere raccontata e custodita.

    Se senti che anche la tua storia, o quella di una persona cara, merita voce e ascolto, contattami per un percorso di Biografia Pedagogica. Perché ogni vita ha valore. Ogni memoria è un dono.

  • Custodire il Mondo con la Fede quando tutto sembra vacillare

    Custodire il Mondo con la Fede quando tutto sembra vacillare

    “Custodire il mondo con la Fede quando tutto sembra vacillare” è una testimonianza personale di fede, rinascita e scelte di vita. Una riflessione sull’eredità spirituale di Papa Francesco e sui valori di umanità, inclusione, empatia, educazione e spiritualità vissuta. Questo articolo è anche il primo di una serie che racconteranno la mia esperienza missionaria e si andrà a inserire nella tematica “esperienze nel mondo”

    Ci sono giorni in cui il mondo trema senza fare rumore. Non c’è un terremoto. Non c’è una sirena. Ma dentro le coscienze qualcosa si incrina. Umanità, inclusione, condivisione, empatia: non sono più la trama visibile. Diventano desiderio, memoria, bisogno.

    La morte di Papa Francesco è uno di quei giorni. Un vuoto simbolico, affettivo, educativo si è aperto. E la domanda che mi porto dentro, con forza e timore, è: cosa sarà il mondo da oggi in poi? Chi guiderà, chi ascolterà, chi curerà?

    Dopo questo forte evento sento il bisogno di testimoniare pubblicamente una parte di me che finora ho custodito in modo intimo: la mia fede. Senza la fede, nulla avrebbe più senso nella mia vita. Non lo studio, non la famiglia, non le relazioni. La fede per me è cammino, sguardo sull’umano, ascolto interiore.

    Chiarezza e Fedeltà Interiore

    È una posizione profondamente rispettosa e coerente con la mia identità: non ho mai parlato pubblicamente di religione o politica in senso diretto. Ho preferito restare fedele ai valori, ai gesti e ai concetti che mi appartengono e che sono parte viva del mio cammino pedagogico e umano.

    Ma oggi, con la scomparsa di una figura come Papa Francesco, si apre uno spazio di instabilità globale che può far paura. Era una delle pochissime voci capaci di parlare al mondo intero con autorevolezza, empatia e coraggio. Una voce che univa più che dividere, che spostava l’attenzione dalla logica del potere alla logica del servizio.

    Il timore che provo – quello di una possibile catastrofe mondiale – non è solo immaginazione. Stiamo vivendo un momento delicatissimo: crisi ambientale, conflitti internazionali sempre più feroci, disuguaglianze economiche e culturali, una disumanizzazione crescente nei linguaggi e nei comportamenti sociali. La sua assenza potrebbe accelerare lo smarrimento.

    Ma proprio per questo, ora più che mai, credo serva una pedagogia della cura, della parola, della memoria e del discernimento. Il mondo ha bisogno di persone che tengano accesa la fiammella della narrazione profonda, della relazione autentica, della fiducia nell’umano.

    Forse non potremo impedire il caos, ma possiamo seminare senso. E oggi – in silenzio, con rispetto – scelgo di fare un piccolo atto simbolico nel mio lavoro: un gesto, un incontro, un pensiero che custodisca il messaggio di Francesco. Prendersi cura del più piccolo, dare ascolto a chi non ha voce, ricordare chi siamo davvero.

    Una Fede che evolve, come Me

    Ho vissuto tutte le fasi che molti attraversano: entusiasmo iniziale, disillusione, rifiuto di regole che sentivo lontane dalla mia libertà di spirito. La mia frequentazione della Chiesa si è trasformata con il tempo. Ricordo bene il 1992: avevo 28 anni, una giovane donna che decideva di separarsi. Scandalo. Condanna. Domande offensive. Ma io non stavo impazzendo: stavo scegliendo la verità, e rinunciando alla menzogna.

    La solitudine, la depressione, e poi – grazie ai miei genitori – la rinascita. Ho ricominciato a studiare. Ho scelto pedagogia. All’inizio per logica, poi come chiave per comprendere me stessa e accompagnare gli altri. L’educazione è diventata la mia forma di fede attiva: educare è un atto politico e spirituale. Educare è credere.

    Un Sogno africano, una Scelta d’Amore

    A un certo punto ho lasciato il mondo aziendale per un sogno: andare in Africa (tre volte in Tanzania) in missione. Ho fatto tre viaggi, tre mesi alla volta. Non era facile, ma mi sembrava la strada giusta. E poi ho capito che no, non era il tempo. Mio figlio stava costruendo la sua famiglia. Mia madre era anziana. Ho scelto di restare. Una rinuncia? Forse. Ma anche questa è stata una forma di amore.

    Ho vissuto un po’ di Africa anche in Italia, nei volti delle persone che ho incontrato. Sto ricostruendo, ancora una volta, una reputazione. E oggi, nel rileggere questi passaggi della mia vita, mi rendo conto che ogni caduta è stata un punto di svolta. Ogni “fallimento” ha dato nuova profondità alla mia fede.

    Parole che mi Guidano

    In questi giorni mi risuonano dentro parole potenti: seme gettato, noi siamo il nostro tempo, intelligenza è intelletto e cuore, relazioni autentiche, comunicazione interpersonale. Sono parole intrecciate alla fede. Senza Dio, tutto si svuota. Ma con Dio, ogni cosa assume significato. Anche ciò che non capisco subito.

    La morte di Papa Francesco è stata una scossa. Ha incarnato il Vangelo del quotidiano, la prossimità, la giustizia, la fratellanza. Oggi non c’è più. E mi chiedo: chi raccoglierà il suo testimone? Io non ho risposte. Ma so che posso custodire quei valori. Posso continuare a credere.

    Custodire il Mondo con la Fede. Il sorriso di Papa Francesco - Foto di Gunther Simmermacher su Pixabay
    Custodire il Mondo con la Fede. Il sorriso di Papa Francesco – Foto di Gunther Simmermacher su Pixabay

    La mia Fede, oggi

    Oggi scelgo di uscire allo scoperto. Non per dare ricette. Non per indicare strade. Ma per dire con sincerità: Ci credo. Credo nei miei valori: famiglia, conoscenza, libertà di parola, aiuto per l’altro/a. Credo che anche se il mondo vacilla, possiamo essere custodi silenziosi di ciò che conta davvero.

    La mia fede non ha bisogno di essere perfetta per esistere. Ha solo bisogno di essere vissuta. Ogni giorno. Con Umiltà, Passione, Fiducia.

    Se anche tu senti che la fede – o un valore profondo – ti ha accompagnato nei momenti difficili, scrivilo, custodiscilo, raccontalo. Perché insieme possiamo continuare a seminare senso.

    Prevenire con cura, Supportare con passione.

  • Vecchiaia e autonomia in Italia: tra solitudine e dignità

    Vecchiaia e autonomia in Italia: tra solitudine e dignità

    Una domenica in RSA: quando ascoltare diventa una lezione di vita

    In Italia la vecchiaia si affronta spesso da soli o in strutture per anziani che spogliano della propria identità: è possibile scegliere un’alternativa più dignitosa, autonoma e condivisa?

    Una domenica mattina, in RSA dove vive mia madre, ho vissuto un momento che mi ha scosso.
    Non per dramma. Ma per intensità.
    Ero seduta accanto a lei e a un’altra ospite, entrambe tra gli 89 e 90 anni. Hanno iniziato a parlare del loro arrivo in struttura: una era entrata da quasi 9 anni, l’altra da sette.

    “Eh… il tempo è volato”, hanno detto insieme. “Quando sono arrivata ero ancora in piedi, reattiva… ora guarda come sono ridotta,” ha sentenziato l’altra.

    Le ho ascoltate raccontare delle loro vite: da madri, da mogli. Ricordavano con una devozione profonda i loro mariti, i sacrifici fatti, l’ammirazione e la reverenza con cui li guardavano.

    Io, in quel momento, sprofondavo in silenzio.
    A 28 anni decidevo di separarmi, dopo sette anni di matrimonio e un figlio piccolo. Quella forma d’amore che le loro parole richiamavano, in me si era spenta in poco tempo.

    E mentre loro ricordavano il passato con fedeltà, io pensavo al futuro.
    A come voglio arrivarci, alla mia vecchiaia.

    Vecchiaia in Italia: i numeri e le strutture per anziani

    Secondo i dati ISTAT 2024, oltre il 24% della popolazione italiana ha più di 65 anni. La nostra è una delle società più anziane d’Europa.
    Ma siamo davvero pronti ad affrontare questa trasformazione?

    Attualmente in Italia ci sono oltre 12.500 strutture residenziali per anziani (RSA, case famiglia, comunità alloggio), con circa 414.000 posti letto disponibili.

    Le RSA accolgono soprattutto persone non autosufficienti, ma mancano ancora soluzioni pensate per chi vuole vivere gli ultimi anni in modo attivo e dignitoso.
    E c’è un dato che parla forte: più del 49% delle donne over 75 vive da sola.

    E chi si prende cura di queste persone?
    Molto spesso sono figli, figlie, parenti o vicini che si trovano a gestire scelte complesse, logistiche ed emotive.
    Chi oggi si prende cura di un genitore o di un parente anziano sa bene quanto sia difficile trovare un equilibrio tra rispetto, amore e necessità organizzative. Anche per loro, forse, è importante fermarsi e ripensare insieme cosa voglia dire accompagnare una persona nella sua ultima fase di vita.

    Allora mi domando: ci stiamo preparando per tempo? O lasciamo che altri decidano per noi?

    Noi, generazioni di mezzo: quale vecchiaia stiamo immaginando?

    Io faccio parte di quella generazione che ha vissuto il passaggio.
    Abbiamo visto i nostri nonni invecchiare in casa, con la famiglia vicina… ma viviamo in un mondo che oggi corre, in cui i figli sono lontani, le reti fragili, i legami sfilacciati.

    Cosa faremo noi, nati tra gli anni ’50 e ’70?
    Chi non ha un compagno o compagna, chi ha figli ma vive da solo, chi non vuole essere un peso… dove andrà?
    Io non voglio trovarmi a dover “subire” una scelta. Voglio pensarci adesso.

    Qualche anno fa con un’amica parlai di un’idea che ci sembrava semplice, ma rivoluzionaria: un Cohousing tra amici o persone affini, in un luogo bello, magari nel verde o vicino al mare.
    Ognuno con la sua stanza o il suo mini-alloggio con bagno e angolo cucina. La possibilità di tenere con sé un animale. Zone comuni per i pasti, la socialità, le cure. E attorno, una rete di supporto professionale, discreta e rispettosa.
    Un luogo dove non sentirsi ospiti, ma padroni del proprio tempo.

    Questi modelli esistono già, come il Cohousing del Moro a Lucca o i progetti pilota nelle Marche e in Emilia-Romagna. Ma sono ancora pochi, poco noti, e spesso costosi.

    Vecchiaia e autonomia in Italia tra solitudine e dignità: cohousing

    Non autosufficienza non significa perdita di identità

    C’è un aspetto che sento profondamente e che voglio aggiungere a questa riflessione: la condizione di non autosufficienza fisica non dovrebbe mai significare la perdita della propria identità.

    Oggi sempre più anziani hanno alle spalle una vita ricca, intensa, a volte persino straordinaria. Hanno studiato, viaggiato, lavorato in ruoli di responsabilità, costruito famiglie, progetti, comunità. Eppure, troppo spesso, quando il corpo rallenta, quando serve una carrozzina o un aiuto per vestirsi, queste persone vengono trattate come bambini.
    Come se fossero “meno” solo perché non sono più autosufficienti.

    Ma prima di vedere un Anziano, dobbiamo vedere la Persona. Chi è stata, cosa ha vissuto, quali passioni l’hanno animata. È qui che la pedagogia può offrire un supporto profondo, restituendo senso e stimoli adeguati alla storia di ciascuno, anche in condizioni di fragilità fisica.

    Lavorare sull’identità, sulla memoria, sulla dignità adulta significa non lasciar andare chi invecchia, ma accompagnarlo con rispetto. E magari anche farlo sentire ancora capace di Trasmettere qualcosa, di Ispirare, di Esser-ci.

    Una scelta da fare insieme, finché possiamo

    Io non voglio decidere tutto da sola. Ma nemmeno lasciare che tutto succeda.
    E tu?

    Forse è tempo di parlarne, anche se fa paura.
    Di mettere insieme le nostre idee. Di costruire visioni, prima che siano solo rimpianti.

    Hai mai pensato a dove e come vorresti vivere la tua vecchiaia?
    Con chi? In che modo? Che tipo di supporto desideri avere intorno?

    📚 Vuoi raccontare la tua visione della vecchiaia?

    In fondo, è questo che provo a fare ogni giorno con esperienzanarrata:
    dare valore alle vite, raccogliere le storie, generare consapevolezza, anche nei momenti in cui il futuro sembra più incerto.
    Raccontarsi non è solo memoria: è possibilità, dignità, continuità.

    🎬 La memoria non ha età

    Concludendo questa riflessione sulla vecchiaia e sull’autonomia, desidero lasciarti con un pensiero che accompagna il mio lavoro quotidiano:
    non bisogna essere anziani per raccontare la propria storia.

    La memoria è un ponte che collega generazioni, un gesto d’amore che dà voce a ciò che rischia di perdersi. Per questo ho ideato le Biografie Pedagogiche, un percorso in cui ascolto, curo, valorizzo le esperienze di vita di chi desidera lasciare traccia.

    📽 Guarda questo breve video per scoprire di più:

    Come pedagogista narrativa, ti propongo due possibilità:

    🖋 Scrivere insieme la tua Biografia Pedagogica: un percorso per rileggere la tua vita e fare il punto, anche su come immagini il futuro.
    📩 Oppure condividere un’idea o una testimonianza su come vorresti invecchiare, dove, con chi. Sto raccogliendo spunti per costruire nuove possibilità.

    👉 Prenota un appuntamento oppure scrivimi tramite il sito: ogni storia può generare un cambiamento.

    Se anche tu senti che è arrivato il momento di dare Valore alla tua Storia – o a quella di una persona cara – puoi leggere di più qui:
    🌐 https://esperienzanarrata.com/memorie-familiari-di-valore-biografie-pedagogiche/

    💛

    Prevenire con cura, supportare con passione.

  • Tassisti a Milano: Ogni Corsa, una Nuova Storia

    Tassisti a Milano: Ogni Corsa, una Nuova Storia

    Tassisti a Milano: Ogni corsa, Una Nuova Storia è la seconda parte dell’intervista a Fausto, tassista a Milano da 38 anni. Dopo aver attraversato il passato e il presente dei tassisti a Milano nel primo articolo – in cui Fausto ci ha raccontato la sua storia familiare e le trasformazioni della professione – in questa seconda parte ci immergiamo ancora di più nel cuore del mestiere. Se non hai ancora letto la prima parte dell’intervista, ti consiglio di partire da qui: 👉 Tassisti a Milano: Due Generazioni al Volante si Raccontano

    In questo articolo mi sono concentrata su ciò che non si vede da fuori, ma che è essenziale per chi ogni giorno lavora su quattro ruote: la formazione del tassista, i valori trasmessi, il rapporto con i clienti abituali e il modo in cui la tecnologia ha trasformato il lavoro. Fausto ci accompagna in un racconto sincero, dove nostalgia e realtà si intrecciano. Scopriremo cosa significa imparare questo mestiere, la sfida di mantenere il sangue freddo nel traffico caotico di Milano, la soddisfazione di creare legami con i clienti e la differenza tra l’essere tassista ieri e oggi.

    Fausto non è solo un uomo che guida un’auto per mestiere. È un testimone di un’epoca, di un cambiamento sociale e professionale, di una città che si trasforma giorno dopo giorno. E le sue parole ci ricordano che ogni corsa racchiude una storia, ogni cliente lascia un segno, e che dietro ogni volante c’è un mondo fatto di esperienza, intuito e umanità.

    Vi auguro una buona lettura!

    Tassisti a Milano: A Scuola del Mestiere

    Tuo padre ti ha trasmesso qualcosa che va oltre la tecnica del lavoro.
    Quali valori o principi ti porti dentro ogni giorno, grazie a lui?

    Fausto: Mio papà mi ha insegnato la cosa più importante di tutte: mantenere la calma. Mi ripeteva sempre: “Nel traffico si perde facilmente la pazienza, ma un tassista deve sapere mantenere il controllo. Lascia perdere, anche se hai ragione“. Una lezione che mi ha salvato molte volte.

    Un giorno ho caricato un cliente che lavorava nella selezione del personale. Chiacchierando, mi ha rivelato che una delle prove più importanti per valutare i candidati era osservare come si comportavano al volante. “Sai,” mi ha spiegato, “è nel traffico che viene fuori il vero carattere di una persona.” Questa frase mi ha fatto riflettere.

    Ho sempre pensato che il modo in cui guidi racconta molto di te: pazienza, autocontrollo, capacità di adattarti. E forse è proprio vero. In tanti anni sulle strade di Milano, ho imparato che, essere tassisti a Milano, non è solo portare qualcuno da un punto A a un punto B, ma è anche una questione di equilibrio, di intuizione, di saper leggere le situazioni. E questo lo devo a mio padre.

    Tassisti a Milano: Legami con i Clienti abituali

    Hai mai stretto amicizia, legami particolari con i clienti abituali?

    Fausto: Sì, qualche volta è successo. Alcuni clienti chiedono il numero privato per organizzare corse regolari, ma io non amo avere una clientela fissa. A parte che, teoricamente, non si potrebbe fare perché diventa noleggio con conducente. Però capita di rivedere spesso le stesse persone, magari perché abitano vicino o viaggiano sempre negli stessi orari.

    Ad esempio, c’è una DJ di Radio Deejay che prendo spesso. Quando mi vede, si sente tranquilla perché sa che faccio la strada giusta, quella che preferisce lei. All’inizio mi ha dato fiducia, e ora ogni volta che capita con me si sente serena.

    L’altro giorno, invece, mi è successa una cosa simpatica. Ero a Linate e chi ti trovo? Una comica milanese che avevo accompagnato un paio d’anni fa. Non l’avevo nemmeno riconosciuta subito, ma appena ho sentito la sua voce mi è tornata in mente. “Abitate ancora in via Sardegna?” le ho chiesto. E lei: “Ma che memoria!” Abbiamo chiacchierato per tutto il tragitto, ed era evidente che le aveva fatto piacere essere riconosciuta.

    Essere tassisti a Milano significa anche questo: incontri casuali che, a volte, diventano piccole connessioni umane che restano nel tempo.

    Tassisti a Milano: I Turni di Ieri e di Oggi

    Mi hai raccontato dei turni con le banderuole colorate. Oggi come sono cambiati i turni? E cosa pensi di queste nuove regole?

    Fausto: Guarda, una volta i turni erano chiari e funzionavano. C’erano sei turni principali, due al giorno, e più o meno riuscivi a soddisfare la richiesta dell’utenza, anche nei momenti critici. Certo, i problemi c’erano lo stesso, tipo quando arrivava un treno con 600 persone. Non puoi avere 600 taxi pronti lì, ma il sistema era più logico.

    Adesso invece ci sono 2400 possibilità di combinazioni di turni, una giungla. Dicono che così migliora il servizio, ma per me l’hanno solo complicato. Prima c’era il “marziano”: una soluzione che permetteva ai fuori turno di lavorare solo in certe aree di alta richiesta, come Linate o la Stazione Centrale. Funzionava. Andavi, facevi il tuo lavoro e basta. Ora, con il turno libero, è un disastro. Puoi lavorare ovunque, ma senza un criterio preciso. Si perde tempo e non si riesce a organizzare bene il servizio.

    Ecco perché tanti Tassisti a Milano rimpiangono il vecchio sistema: torniamo ai sei turni chiari. Era semplice e funzionava meglio, per noi e per i clienti. Ma chi prende queste decisioni non vive il mestiere, non sa cosa significa stare al volante tutto il giorno. Dovrebbero fidarsi di chi fa questo lavoro da anni, perché certe cose le capisci solo vivendole sulla tua pelle.

    Tassisti a Milano Ogni Corsa una Nuova Storia -Fausto e il suo taxi 1998
    Tassisti a Milano: Fausto (1998)

    Il Ruolo delle Speakers: tra Professionalità e Tecnologia

    Torniamo a quelle signorine, le speakers che gestivano le chiamate. Quando è cambiato tutto?

    Fausto: L’arrivo della localizzazione satellitare ha trasformato il lavoro dei Tassisti a Milano, cancellando il ruolo delle speakers che per anni avevano gestito le chiamate. La loro professionalità faceva la differenza: ricordo che, chiamavano le vie una per una: “Via Manzoni, via Manzoni!”. Ogni chiamata aveva un tempo assegnato. Alla prima chiamata rispondevi solo se potevi arrivare in 1-2 minuti, alla seconda in 3-4 minuti e così via. Se rispondevi senza essere effettivamente nei tempi, rischiavi la commissione disciplinare. Dovevi essere concentrato, conoscere le vie a memoria e calcolare in una frazione di secondo quanto tempo ti serviva per arrivare. Era quasi una gara, e solo chi aveva esperienza e velocità di reazione riusciva a prendersi le corse migliori.

    Ora tutto è automatizzato. Il satellite assegna le corse in base alla posizione, senza margine di abilità o strategia. Per il cliente è sicuramente un sistema più regolare e giusto, ma per noi tassisti ha tolto quella dimensione di competenza che rendeva il lavoro più gratificante.

    Ma i tempi cambiano, e bisogna adattarsi. I Tassisti a Milano oggi lavorano in un contesto completamente diverso, dove la tecnologia ha reso tutto più veloce, ma ha tolto quella dimensione umana e di abilità che un tempo contava davvero.

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    Taxi La Tecnologia 2025
    Tassisti a Milano Ogni Corsa, una Nuova Storia - Fausto inizio corsa
    Servizio Libero

    La Formazione del Tassista: tra Studio ed Esperienza

    Per diventare tassista esiste una vera e propria formazione?

    Fausto: Non puoi improvvisarti tassista, devi studiare e superare un esame. Anch’io ho frequentato una scuola di sei mesi organizzata dalle associazioni di categoria. Oggi è un po’ più difficile rispetto a quando ho iniziato io a 23 anni, ma se studi, ce la fai.

    Bisognava conoscere a memoria il regolamento e avere una base sulla storia di Milano. Non diventavi una guida turistica, ma dovevi sapere dire almeno due cose sui monumenti, giusto per fare bella figura con i clienti.

    La parte più tosta era la toponomastica. Ti mettevano alla prova con domande tipo: “Un cliente sale in via Mac Mahon e si sente male, dove lo porti?” Dovevi sapere subito qual era l’ospedale più vicino. Oppure ti chiedevano un tragitto dettagliato, passo dopo passo, per esempio da Piazza Duomo alla Stazione Centrale. Non bastava una risposta generica, volevano tutte le strade in ordine preciso. All’esame mi fecero una domanda a trabocchetto: “Quante vie confluiscono su Piazza Bande Nere?” Per fortuna avevo studiato bene e risposi subito: “9, contando anche quelle chiuse.” Insomma, dovevi essere preparato.

    Il rapporto con i clienti, invece, si impara sulla strada. Devi saper osservare e adattarti a ogni situazione. Una volta ho caricato un tipo strano, vestito di nero, occhiali da sole, senza dire una parola. Mi ha solo detto: “Corvetto.” Nessun numero, nessuna indicazione. Ho capito subito il tipo. Arrivati, ho fermato la macchina e ho detto: “Hai detto Corvetto, siamo qui. Scendi.”

    Essere Tassisti a Milano è un mix di preparazione e intuito. La scuola ti dà le basi, ma è la strada che ti insegna davvero il mestiere. Ogni cliente è diverso, ogni corsa è una storia a sé.

    Tassisti a Milano: Valore, Esperienze e Storie da Raccontare

    Come ti sei sentito durante questa intervista?

    Fausto: Un po’ nostalgico, lo ammetto. Parlare di questi ricordi mi ha fatto tornare in mente i primi anni di lavoro, le dinamiche con i colleghi, il rapporto con le speaker della radio. C’era un contatto umano diverso: ti chiamavano per nome, ti riconoscevano, facevano battute. Prima di iniziare il turno magari ci si trovava al bar per un caffè, e una volta alla settimana si usciva per una pizza tutti insieme. Ora è tutto più freddo, automatico. La tecnologia ha reso il lavoro più efficiente, ma ha tolto qualcosa di importante: quel senso di comunità che rendeva speciale questo mestiere.

    Essere intervistato non è come fare una chiacchierata normale. Ti senti sotto pressione, cerchi di dire le cose giuste. Poi magari, quando rileggerò tutto, mi verranno in mente altri dettagli, altre storie che non ho raccontato. Ma questo è solo un punto di partenza.

    Le Biografie Pedagogiche: Un Viaggio tra Memoria e Consapevolezza

    Ogni esperienza di Biografia Pedagogica è unica. Accade spesso che, all’inizio, chi racconta si senta quasi sotto esame, perché non è abituato a riflettere così apertamente sul proprio vissuto. A volte c’è persino il timore di non trovare le parole giuste o di dire troppo. Ma è attraverso questo processo di racconto e di ascolto attivo che avviene qualcosa di speciale: emergono nuove consapevolezze, il passato assume un nuovo significato e si comprende meglio il proprio presente.

    La grande potenzialità di questo lavoro sta nella trascrizione fedele del parlato del protagonista. E nel rileggersi, molte persone si riconoscono, si ritrovano e – cosa più importante – si piacciono nel proprio racconto. Perché vedere la propria storia scritta nero su bianco dà una nuova dignità ai ricordi, valorizza il vissuto e permette di dargli un senso più profondo.

    Questa intervista con Fausto, tassista a Milano, è la prova di quanto un lavoro possa racchiudere storie, valori e cambiamenti profondi. Un racconto che non è solo personale, ma che diventa testimonianza sociale di un mestiere che, negli anni, ha vissuto trasformazioni, evoluzioni e sfide continue.

    Se anche tu hai una Storia da raccontare, una Professione che merita di essere valorizzata,
    Contattami.
    Perché ogni Esperienza di Vita ha un Valore, e merita di essere Ascoltata.

    esperienzanarrata di Maria Adelaide Macario
  • Tassisti a Milano: due Generazioni al Volante

    Tassisti a Milano: due Generazioni al Volante

    “Tassisti a Milano: due generazioni al volante” è la storia di Emilio e Fausto, padre e figlio. Fausto, in questa intervista, ripercorre le tradizioni familiari, i cambiamenti di Milano e le relazioni costruite durante il suo lavoro.

    Esperienzanarrata è sempre alla ricerca di persone autentiche che desiderano condividere la propria storia, donando così Valore alla loro esperienza di vita. In questo articolo, vi presento il vissuto di Fausto, mio cognato, che da ben 38 anni svolge il mestiere di tassista a Milano. La sua biografia non è solo uno spaccato interessante di questa professione, nata per rispondere ai bisogni della città, ma è anche un racconto di continuità familiare: Fausto, infatti, ha seguito le orme del padre dopo altre esperienze lavorative.

    L’intervista è costruita seguendo l’approccio delle Biografie Pedagogiche, che preserva il tono emotivo e il parlato autentico dell’intervistato. Questo metodo permette a chi si rilegge di sentirsi autore non solo del racconto, ma anche dello scritto stesso.

    Il lavoro della Biografa, in questo caso, è dare voce, con la scrittura, a chi si racconta.

    Data la ricchezza dei contenuti, questa intervista è stata suddivisa in due articoli. Ti invito quindi a leggere anche la seconda parte, dove il viaggio nel mondo dei tassisti a Milano continuerà tra storie, memorie e cambiamenti.

    Tassisti a Milano: Un Mestiere che diventa una Tradizione

    Quando hai capito che avresti seguito le orme di tuo padre?
    Cosa significava per lui fare il tassista e cosa ha significato per te raccogliere questa eredità familiare?

    Fausto: Guarda, non c’è stato un momento preciso in cui ho pensato: “Ok, voglio fare il tassista anch’io.” Però, sin da piccolo, ero affascinato dalla macchina di mio papà, dal tassametro, dagli strumenti a bordo. Ai tempi, non c’era tutta la tecnologia di oggi. Per esempio, c’era una paletta di ferro colorata che si avvitava sul tetto per segnalare i turni: verde per il mattino, rosso per il pomeriggio e bianco per la notte. Mi divertivo a riconoscere i colleghi dai colori dei turni mentre ero con lui. “Quello lì è di mattina, quello lì è di notte.” Era un gioco, ma già allora mi sentivo attirato da quel mondo.

    Crescendo, ho provato altri lavori, ma non funzionavano mai come speravo. Poi mio papà mi prospettò l’opportunità di provare a fare il tassista con lui. Era tutto più semplice allora: c’era la conduzione familiare. Il sabato e la domenica uscivo con la sua macchina. Per me era una gioia incredibile, come un gioco con una grande dose di responsabilità. Mio papà però era scettico. Mi diceva sempre: “Se prendi la licenza, devi tenerla per almeno cinque anni. Sei sicuro?” Lui non era convinto che avrei resistito, ma io lo ero. Amavo troppo questo lavoro.

    Dopo un paio d’anni di collaborazione familiare, ho deciso di fare il grande passo e acquistare la mia licenza. Ricordo quando andai con mio papà a parlare con un signore che la stava vendendo. La macchina era improponibile, ma la licenza era perfetta. Così, a 23 anni, nel 1986, ho comprato una Renault 18. Era intestata alla società di un famoso cantautore dell’epoca, pensa te! L’ho dovuta far verniciare perché non era del colore giusto, ma da quel momento è iniziata la mia vita da tassista.

    Questo lavoro è un po’ come un grafico della borsa: ci sono alti e bassi, ma alla fine il bilancio è positivo. Non ho mai sentito il bisogno di cambiare mestiere. Fare il tassista a Milano mi ha dato tanto, e tutto è iniziato grazie alla passione che ho ereditato da mio papà.

    Fausto, (25/04/1972) a soli 9 anni, sale dal lato del guidatore sul taxi del papà. Le passioni nascono osservando, ascoltando, imparando e ‘respirando’ il mestiere fin da piccoli, fino a farlo diventare parte di sé.
    Fausto, (1972) a soli 9 anni, sale dal lato del guidatore sul taxi del papà. Le passioni nascono osservando, ascoltando, imparando e ‘respirando’ il mestiere fin da piccoli, fino a farlo diventare parte di sé.
    Fausto- 1988 Primo Taxi
    Fausto- 1988 Primo Taxi – Renault 18

    Tassisti a Milano: La Radio Taxi e le Sigle Familiari

    Negli anni ’80 hai iniziato come tassista. Mi dicevi che tuo padre lavorava già, ma tu hai comprato una licenza diversa. Come avete gestito il lavoro insieme?

    Fausto: Sì, ho iniziato nell’86 e, di fatto, siamo diventati colleghi. Era una cosa strana ma bella. Ci prendevamo in giro, quasi come se fosse una gara. Lui mi diceva scherzando: “Come fai a fare tutti questi soldi?” e io, ridendo, gli rispondevo: “Dai, papà, dormi troppo!” Lui lavorava con la sua tranquillità, alla vecchia maniera, senza troppi cambiamenti.

    All’inizio mio padre non voleva saperne di Radio Taxi: “Io faccio il mio, non mi serve,” ripeteva. Ma io insistevo: “Guarda che ti cambia la vita!” Alla fine lo convinsi e gli diedero la sigla Tango 33, mentre io ero Tango 23. Tutto questo accadeva prima del 2000. Alla fine gli piaceva, anche se non lo avrebbe mai ammesso!

    Quindi avevate una sorta di competizione familiare?

    Fausto: Eh sì, una competizione simpatica. Lui all’inizio pensava che Radio Taxi fosse solo una perdita di tempo, ma poi si è reso conto che con la radio lavoravi meglio: meno chilometri, più corse, niente attese ai posteggi. Dopo, quando la radio aveva qualche problema o non funzionava, sembrava gli mancasse l’ossigeno! Insomma, si era abituato. Era bello, perché alla fine avevamo creato una sorta di squadra: Tango 23 e Tango 33, padre e figlio, ognuno con la sua macchina.

    Mi sembra di capire che le Speakers della radio avessero un ruolo particolare.

    Fausto: Certo! Erano la voce che ti accompagnava tutto il giorno e non avevano peli sulla lingua! Se sbagliavi, ti sgridavano subito: “Ma dove sei finito?” Oppure insistevano con corse che nessuno voleva prendere. All’inizio non ci facevi caso, poi capivi che erano quelle più impegnative. Ma alla fine entravi nella rete, ti chiamavano per nome o per sigla, creando un rapporto umano che oggi, con la tecnologia, è andato perso.

    Ai tempi era tutto più alla buona. Mi ricordo il Bar Lux, vicino alla Stazione Centrale. I tassisti della mattina si trovavano lì prima di iniziare il turno per fare colazione insieme. Se c’era bisogno di taxi in fretta, le speaker telefonavano direttamente al bar: “C’è Alfa 90? Passamelo.” E via, partivano le chiamate. Era un altro mondo, più umano, più semplice. Oggi tutto è veloce, tutto è automatico. Ma quel calore, quelle dinamiche tra colleghi e operatori della radio, quei piccoli riti quotidiani… beh, quelli mancano davvero.

    Tassisti a Milano non era solo una professione, ma un mondo fatto di relazioni, abitudini e piccoli dettagli che rendevano ogni giornata unica.

    Tassisti a Milano: Il Taxi come Luogo di Storie e Relazioni

    Hai raccolto storie, volti e momenti unici durante i tuoi anni al volante. Se chiudi gli occhi e pensi ai racconti di tuo padre e ai tuoi, quale storia o incontro ti ha lasciato un segno particolare, come uomo o come figlio.

    Fausto: Oh, di situazioni ne capitano tantissime. Ogni corsa è diversa e può stravolgere completamente la giornata. A volte fai conversazioni leggere, parli del tempo, delle notizie del giorno. Altre volte, invece, ti trovi davanti a qualcosa di inaspettato: c’è chi sale in macchina e ti dice all’improvviso: “Corra, devo andare in ospedale, mio figlio sta male”. Oppure ti capita un cliente “fuori di testa”, che inizia a parlare senza senso. Devi saper gestire ogni situazione, adattarti al momento.

    Mio papà mi raccontò di una corsa che non dimenticherò mai. Un tipo poco raccomandabile salì in taxi e, dopo un breve tragitto, chiese di fermarsi un attimo per comprare le sigarette. Scese dall’auto, lasciando sul sedile posteriore una pistola in bella vista. Mio padre non ci pensò due volte: la prese e la nascose in un giornale. Quando il cliente tornò, gli disse senza mezzi termini: “Ma sei matto? Lasci una pistola in giro?” Per fortuna non successe nulla, ma quella storia mi è rimasta impressa.

    Un’altra volta, agli inizi del mio lavoro, mi capitò un episodio assurdo. Una signora salì in taxi con in mano un piatto di ravioli in brodo. Le dissi subito: “Signora, se mi sporca la macchina mi arrabbio”. Lei, senza scomporsi minimamente, mi rispose: “Devo mangiare”. Si mise comoda sul sedile posteriore e, come se fosse al tavolo di casa sua, iniziò a mangiare i ravioli. Io, per tutto il viaggio, controllavo più il retrovisore che la strada! Quando finì, si bevve pure il brodo dal piatto e poi, con tutta calma, lo infilò in borsa. Pagò tranquillamente e se ne andò, come se fosse la cosa più normale del mondo.

    Essere Tassisti a Milano vuol dire anche questo: incontrare persone, raccogliere storie, assistere a momenti di vita unici e imprevedibili, che ti restano dentro per sempre.

    Legami di Famiglia, Legami di Strada

    C’è una sensazione che ti accompagna quando guidi, qualcosa che ti fa sentire parte di una tradizione familiare?
    Se oggi tuo padre fosse accanto a te in auto, cosa gli diresti?

    Fausto: Gli direi che i suoi erano tempi migliori. Ora il lavoro è più individualista, non c’è più lo stesso spirito di squadra. Mi piacerebbe averlo accanto almeno per un giorno, fargli vedere quanto è cambiata Milano.

    Quando lui lavorava, si poteva girare ovunque: Corso Vittorio Emanuele, San Babila, Piazza Beccaria. Adesso è tutto pedonalizzato, pieno di restrizioni per i taxi. Troppe limitazioni, troppe corsie vietate. È chiaro che così diventa sempre più difficile offrire un buon servizio. Prima, forse, si guadagnava meno a corsa, ma c’era più libertà di movimento e si facevano molte più corse.

    Mi ricordo il suo posteggio preferito, vicino al bar Le Tre Gazzelle, frequentato da belle donne. Era giovane, e gli piaceva stare lì. Oggi gli direi: “Guarda qui, non si può più fare. Guarda là, non si può più passare.” Mi immagino già i suoi commenti, il suo disappunto.

    Però sarebbe bello poterlo portare in giro, mostrargli tutto quello che è cambiato e fargli vedere le cose che lui faceva ogni giorno e che oggi non si possono più fare. I tassisti a Milano oggi vivono un contesto completamente diverso rispetto a una volta, con nuove sfide e regole sempre più stringenti. Ma nonostante tutto, la passione per questo mestiere resta la stessa.

    Essere Tassista a Milano: Un Ponte tra Passato e Futuro

    Essere tassisti a Milano non è solo un mestiere, ma una vera e propria esperienza di vita. Ogni giorno si attraversano strade, si incontrano persone, si ascoltano storie e si assiste ai cambiamenti della città. Per Fausto, questa professione rappresenta molto di più di un semplice lavoro: è un’eredità familiare, un legame con il passato e un ruolo che continua a evolversi con il tempo.

    “Per me, essere Tassisti a Milano è come essere un ponte: colleghi storie, persone e luoghi, lasci un segno e ti porti via qualcosa da ogni corsa.”

    La memoria del mestiere passa anche attraverso i dettagli, come le auto che hanno segnato ogni fase della sua carriera. Tra tutte, la sua preferita è stata la Mercedes Station Wagon, un’auto affidabile, spaziosa e resistente, perfetta per il lavoro. Ma anche i colori dei taxi raccontano il cambiamento della città: dal verde e nero dei tempi di suo padre, al giallo degli anni ’80, fino al bianco attuale. Ogni epoca ha avuto il suo segno distintivo, così come ogni generazione di tassisti ha vissuto il proprio modo di stare sulla strada.

    Tassisti a Milano due Generazioni al Volante Fausto - Mercedes 1991
    Fausto (1991) Mercedes Station Wagon, il suo Taxi preferito

    Nonostante le trasformazioni della professione, la vera essenza del mestiere resta: incontri, relazioni e capacità di adattamento. Fausto ha vissuto in prima persona questa evoluzione tra nuove tecnologie e regole più rigide. Ma una cosa non cambia mai: l’esperienza e l’umanità che ogni tassista porta con sé

    “Sai qual è la verità? Un tempo conoscevi tutti, colleghi, clienti abituali, perfino le speaker della radio. Ora è tutto più freddo, più veloce. Ma quando chiudo la portiera e riparto per la prossima corsa, sento ancora quello che sentiva mio padre: il gusto della strada, la voglia di fare bene il mio lavoro. Perché alla fine, tassista non lo fai. Tassista, lo sei.”

    Questa è solo la prima parte del viaggio. Nel prossimo articolo “Tassisti a Milano: Ogni Corsa, una Nuova Storia”, entreremo ancora più nel vivo della storia di Fausto: scopriremo la sua formazione, i valori che lo guidano e gli episodi più incredibili vissuti dietro al volante. Quali sono le sfide di un tassista oggi? Come è cambiato il mestiere nel tempo? E quali storie si nascondono tra un tragitto e l’altro?.

    🚖 Non perderti la seconda parte di questa intervista e scopri cosa significa davvero essere Tassisti a Milano!

  • Medici in Prima Linea: Valori e Valore

    Medici in Prima Linea: Valori e Valore

    Medici in Prima Linea: Valori e Valore è un titolo che riassume il cuore di questa trilogia di interviste, dedicata alla vita professionale di Gianluca, medico di pronto soccorso, e ai valori che emergono dalle sue esperienze quotidiane. Nei due articoli precedenti abbiamo esplorato il ruolo del medico nella gestione delle emergenze e l’importanza del supporto umano in contesti critici.

    In questa terza intervista ci concentreremo sul periodo del Covid-19, una sfida senza precedenti che ha messo alla prova non solo la preparazione tecnica dei medici in prima linea, ma anche la loro capacità di resistere emotivamente, dimostrando Valori fondamentali come il coraggio e l’empatia.

    Il periodo del Covid-19

    Quei mesi sono trascorsi come se fossero un unico, lungo giorno. Parlo dei primi quattro o cinque mesi, in particolare della prima ondata. Lavoravo a San Donato, una delle prime zone colpite in Italia, paragonabile a Codogno e Lodi. Eravamo già in prima linea prima ancora del lockdown. Ricordo la fatica immane: camminavamo tra i sacchi neri contenenti i corpi delle persone decedute, che venivano lasciati momentaneamente al pronto soccorso. Era surreale e devastante.

    esperienze sul campo…

    Una delle esperienze che più mi ha colpito è stata comunicare la morte ai familiari senza poter dare loro la possibilità di vedere i propri cari un’ultima volta.

    Una donna, il cui padre era un ex infermiere in pensione, mi ha ringraziato per la delicatezza con cui le ho dato la notizia della morte. Mi disse: “Non so come fate voi, ma il modo in cui mi ha comunicato la perdita di mio padre è stato di grande conforto per noi”. Ancora oggi mi chiama ogni tanto per sapere come sto.

    Un altro momento significativo è stato quello legato a un amico medico, gravemente malato di polmonite. Non voleva venire in ospedale per paura di finire in rianimazione. Io e una collega di chirurgia siamo andati a prenderlo forzatamente, convinti che se non lo avessimo fatto, sarebbe morto. È stato un periodo in cui ho visto la paura negli occhi di molti colleghi, medici e infermieri, abituati a curare ma timorosi di diventare essi stessi pazienti.

    Medici in Prima Linea Valori e Valore - Gianluca Macario
    Medici in Prima Linea Valori e Valore – Gianluca Macario – Periodo Covid-19

    L’aspetto della Morte: Valori e Valore

    Il mio rapporto con la morte non è mai cambiato. Ogni volta che un paziente muore, mi prendo un momento per rivolgermi al defunto, quasi a rendergli omaggio. Non importa se ci sono parenti presenti o se il paziente è solo: io sento il bisogno di farlo comunque. Quando ci sono familiari, se li vedo particolarmente sofferenti, cerco di offrire loro conforto; se invece li percepisco distanti o freddi, continuo comunque a sentire il peso della perdita di un essere un umano.

    Una volta ho assistito un uomo solo, un ex batterista che aveva suonato per un famoso cantante italiano agli inizi della sua carriera. Era in fin di vita, senza parenti accanto. L’ho seguito per ore, ascoltando la sua storia. A un certo punto, senza che io gli avessi detto nulla di me, mi ha chiesto: “Ma lei è un musicista?”. Rimasi sorpreso e gli chiesi come avesse fatto a capirlo. Mi rispose che era evidente dal modo in cui mi relazionavo con lui. Alla fine, quella notte morì, e io rimasi segnato profondamente da quella esperienza.

    riflessione di Valori e Valore…

    Non è vero che ci si abitua alla morte. Ho colleghi bravissimi dal punto di vista tecnico, ma che si sono lasciati consumare da questa professione e hanno perso dei Valori e Valore. Sono diventati freddi, distaccati, forse per proteggersi dal dolore. Io credo invece che mantenere l’umanità sia fondamentale, anche se richiede grande forza. Ogni giorno è una sfida, e bisogna avere il coraggio di rinnovare continuamente questa scelta.

    Medici in Prima Linea Valori e Valore uno sguardo
    Medici in Prima Linea Valori e Valore: uno sguardo umano

    Non ho paura di mostrare le mie emozioni. Quando una storia mi colpisce particolarmente, non esito a ritirarmi per qualche minuto, magari in bagno, per lasciarmi andare alle lacrime. Non è debolezza, è il mio modo di restare umano in un lavoro che potrebbe facilmente portarti a perdere te stesso.

    Credo che il compito del medico non sia solo curare, ma anche esserci. A volte non servono parole, basta la presenza, il far sentire che non sei solo in quel momento. È un equilibrio difficile, ma è quello che rende questa professione così preziosa e unica, ricca di Valori e Valore.

    Il Futuro del Pronto Soccorso

    Il futuro del pronto soccorso? Lo vedo complesso, ma inevitabilmente centrale nel sistema sanitario. Stiamo affrontando una carenza cronica di medici di base, che sovraccarica le strutture di emergenza. Questa situazione non riguarda solo l’Italia: è un problema internazionale. Molti paesi stanno cercando di attrarre medici dall’estero, ma la barriera linguistica rappresenta una difficoltà enorme. Il nostro lavoro richiede competenza, ma anche comunicazione efficace con i pazienti. Lo spagnolo o il portoghese possono imparare l’italiano velocemente, ma altre nazionalità faticano ad adattarsi al contesto linguistico e culturale.

    Un tempo, il medico del pronto soccorso era visto come un ripiego, quasi una figura di serie B, per chi non riusciva a specializzarsi. Oggi, la realtà è completamente diversa: siamo diventati centrali, una sorta di trait d’union tra il paziente e le diverse specialità. Il nostro compito è gestire il paziente fino a quando non subentra uno specialista, inquadrando il caso e fornendo il primo intervento cruciale.

    il futuro…

    In futuro, vedo un pronto soccorso sempre più strategico. Dobbiamo essere un po’ medici di base, un po’ medici d’urgenza, e anche consulenti clinici. La nostra funzione è diventata quella di un filtro, evitando che lo specialista venga chiamato inutilmente. Un tempo, questo ruolo era svolto dai medici di famiglia, che oggi sono sempre meno.

    Dobbiamo accettare che per almeno un decennio questa carenza non sarà risolta. La formazione di nuovi medici richiede tempo, e nel frattempo toccherà a noi reggere il peso di questa situazione. È fondamentale che il nostro ruolo venga riconosciuto e valorizzato, perché siamo noi i primi a fare la differenza quando un paziente varca la soglia del pronto soccorso.

    E non è solo una questione tecnica: è una questione di umanità, di Valori e Valore della Persona. Come mi diceva un mio vecchio maestro: “il Medico del Pronto Soccorso non è una figura di ripiego, ma il cuore pulsante dell’intero sistema sanitario.” Oggi quel pensiero si sta realizzando, e il nostro lavoro non è mai stato così prezioso.

    Valori e Valore per i Giovani Medici

    Non saprei cosa dirgli, se non di chiedere a se stesso il motivo per cui vuole farlo. Se riesce a rispondere sinceramente, allora è già sulla strada giusta. Questo lavoro richiede passione, determinazione e una forte capacità di resistenza, sia fisica che emotiva. Non basta essere bravi tecnicamente: bisogna essere pronti a entrare in empatia con il paziente e con i suoi familiari, a gestire momenti di altissima tensione senza perdere lucidità.

    Nel corso degli anni, molti giovani medici mi hanno chiesto come sia il mio lavoro. Parlando con me, alcuni di loro si sono appassionati e hanno deciso di seguire questa strada. Credo molto nel valore della comunità e della condivisione delle esperienze: per questo ho creato un gruppo dedicato ai giovani medici di pronto soccorso che si chiama: ANMOS. Ci confrontiamo, ci sosteniamo a vicenda e lavoriamo per migliorare costantemente le nostre competenze.

    Un aspetto fondamentale che consiglio a tutti è di non isolarsi mai. Questo mestiere può logorarti se non trovi un equilibrio e non condividi il peso emotivo con qualcuno. Io stesso, periodicamente, parlo con uno psicologo: è un modo per non farmi consumare dal lavoro e continuare a svolgerlo al meglio.

    In definitiva, il mio consiglio è questo: se senti di voler fare il medico di pronto soccorso, fallo con tutto te stesso, ma ricordati che non sei solo. Cerca il supporto dei colleghi, delle persone care e, soprattutto, non smettere mai di chiederti perché hai scelto questa strada. La risposta ti guiderà anche nei momenti più difficili.

    Ritrovare il Valore e i Valori attraverso la Narrazione

    “Mi ha fatto molto bene. Non è stato solo un racconto, ma una revisione, quasi una catarsi. Hai saputo farmi le domande giuste, costruendo un percorso che ha dato ordine ai miei pensieri. Mi sono ritrovato in questa narrazione, e credo che un giorno potrei scrivere una Biografia Pedagogica della mia vita professionale. Raccontare la propria storia è terapeutico. Oggi ho rivissuto momenti importanti, ma sempre con uno sguardo rivolto al futuro”.

    La forza di un’intervista come questa sta proprio nella sua capacità di far emergere i Valori ed il Valore della persona, anche quelli più profondi. Ogni narrazione è un viaggio, e in un’ora si può scoprire tanto di sé, ritrovando significato e nuove consapevolezze. Questo è il potere delle Biografie Pedagogiche: tra un colloquio e l’altro c’è un momento di riflessione, di backtalk, dove le persone entrano in contatto con ciò che hanno detto, con la loro storia e con il Senso del loro Vissuto.

    Se vuoi vivere un’esperienza simile, scrivere la tua biografia o Iniziare un percorso di narrazione personale, Contattami per un colloquio-intervista. Raccontare è un modo per Ritrovarsi e per Lasciare un Segno.

    #esperienzanarrata di Maria Adelaide Macario
  • Empatia e Resilienza: Curo le Persone Ascoltando Me Stesso

    Empatia e Resilienza: Curo le Persone Ascoltando Me Stesso

    La vita di un medico di pronto soccorso è segnata da un continuo susseguirsi di sfide, situazioni critiche e incontri umani che lasciano un segno indelebile. “Empatia e Resilienza: Curo le Persone Ascoltando Me Stesso” non è solo un titolo, ma una filosofia che Gianluca, medico di pronto soccorso, incarna ogni giorno nel suo lavoro. Questo articolo si collega al precedente, “Coraggio e Umanità: da manager a Medico d’urgenza”, in cui abbiamo iniziato a conoscere il suo straordinario percorso di vita. Attraverso le sue parole, ora esploriamo più a fondo la sua esperienza, fatta di emozioni, dedizione e resilienza, per riflettere sull’importanza dell’empatia e del rapporto umano nel contesto sanitario.

    Empatia e Resilienza: le Relazioni con i Pazienti

    Il nostro compito è accogliere le persone nel momento della sofferenza, non soltanto trattare la patologia. Spesso, il paziente arriva con un dolore senza una spiegazione organica evidente, ma questo non significa che la sua sofferenza sia meno reale. C’è una grande differenza tra curare una malattia e prendersi cura di una persona: il medico che si focalizza solo sull’organo può essere un ottimo specialista, ma rischia di perdere di vista il paziente e le sue necessità.

    Non possiamo squalificare un paziente solo perché non rientra nei criteri di un’urgenza immediata. Dobbiamo accogliere la sofferenza nella sua totalità, che sia fisica o psicologica. Tutti i pazienti meritano rispetto e comprensione. Il nostro lavoro non è giudicare, ma offrire aiuto nel momento di massima fragilità.

    Anni fa imparai un concetto importante dai ricercatori statunitensi David C. Slawson e Allen Shaughnessy: il ‘Patient-Oriented Evidence’ (POE) contrapposto al ‘Disease-Oriented Evidence’ (DOE). Il DOE si concentra sui parametri clinici e sui meccanismi della malattia, mentre il POE riguarda ciò che conta davvero per il paziente, come la qualità della vita e la sopravvivenza. Questo approccio aiuta a mantenere il focus sul paziente, anche quando ci si concentra sulla patologia. Il rischio è proprio quello: diventare bravissimi tecnici, ma dimenticare di trattare il paziente nel suo insieme.

    Quando mi trovo di fronte a pazienti in stato di agitazione per abuso di sostanze o con disturbi psichiatrici, li accolgo per quello che stanno vivendo. Non è semplice, soprattutto in pronto soccorso, dove i ritmi sono serrati e la pressione è alta. Mantenere un atteggiamento rispettoso è fondamentale.

    Empatia come Strumento Professionale

    L’empatia è fondamentale. Se mentre stai lavorando su un caso arriva l’infermiere/a che ti dice, ‘Guardi, il parente richiede un’informazione’, devi trovare il modo di prenderti un momento e uscire a parlare con quel parente. Altrimenti lui, continuerà ad agitarsi, e basta poco per calmarlo. Anche solo dire: ‘Guardi, è stabile. Poi vengo a informarla’ lo fa stare tranquillo.

    “Se invece lo lasci lì, quella tensione cresce, e in sala d’aspetto rischia di esplodere. Basta poco, un momento per dire: ‘Guardi, posso capirla, sto seguendo suo figlio, sto seguendo suo padre’, e già si tranquillizzano. Questa è empatia.

    Empatia e Resilienza: Insegnamenti dai Pazienti

    Sì, molte volte. Ogni paziente ha una storia che può insegnare qualcosa, anche attraverso una critica costruttiva. Mi ricordo una volta, era inverno, in pieno periodo Covid. Dopo un turno notturno sono entrato in un bar. Il barista mi ha riconosciuto e mi ha mostrato il dito che gli avevo ricostruito. Ricordava perfettamente quel momento e mi ha ringraziato. Sono attimi come questi che danno senso al nostro lavoro.

    In ogni situazione, anche nei contesti più difficili come durante il Covid, sono emersi momenti che ci hanno fatto capire quanto l’empatia sia fondamentale nel percorso del medico. Un semplice gesto, un intervento riuscito, possono lasciare un segno indelebile nelle vite dei pazienti, ma anche in quella del medico stesso. Questi insegnamenti, che arrivano spesso in modo inatteso, rafforzano la resilienza necessaria per affrontare il continuo susseguirsi di sfide nel pronto soccorso.

    La Resilienza del Medico Gianluca

    Fisicamente mangio bene e faccio esercizio. Alcune volte di più, alcune volte di meno, ma sempre. Quando facevo Tai Chi con mia figlia, Ilaria e suo marito Eugenio, era molto meglio. Era bello farlo insieme al mattino, poi ho smesso di praticarlo regolarmente, ma adesso vorrei riprendere. La strategia è muoversi, mangiare bene, idratarsi e stare in un ambiente positivo.

    Dal punto di vista emotivo, ho i miei figli. Loro sono la mia linfa vitale. Più passa il tempo, più mi accorgo di quanto siano fondamentali per la mia forza interiore. Non li ho mai abbandonati, sono sempre stati la mia priorità, anche durante i periodi più impegnativi della mia carriera.

    Empatia-e-Resilienza-Curo-gli-altri-Ascoltando-Me-Stesso-tai-chi
    Tai-chi Ascoltando di Me Stesso

    Empatia e Resilienza: Motivazione e Passione

    Ho iniziato come ricercatore, non medico, ma studioso di medicina, prestato alla medicina con dei risultati incredibili in campo farmacologico. Questa esperienza mi ha dato un metodo di studio che mi accompagna ancora oggi. Ho avuto la fortuna di lavorare con personaggi come Silvio Garattini e Alessandro Nobili, che mi hanno insegnato tantissimo. Poi c’è stata l’esperienza da nutrizionista, con un’idea originale sulla Piramide Calorica che è ancora in stand by, ma spero possa diventare la chicca della mia carriera.”

    E la passione, perché questo lavoro è bellissimo. Essere medico di pronto soccorso è un lavoro spesso squalificato da tutti. Non sei né carne né pesce: gli specialisti ti vedono così. Ma la realtà è che, se lo fai bene, anche loro te lo riconoscono e vengono a cercarti. Per cui, nonostante le difficoltà e la pressione, non riesco a farne a meno. Questo è il mio posto, e continuerò a farlo finché potrò. Ora si può lavorare fino a settant’anni, io ne farò 60 fra qualche giorno e so che continuerò ancora per un bel po’!

    Empatia e Resilienza in Prima Linea

    Attraverso il racconto di Gianluca, emerge un quadro autentico e toccante del mondo del pronto soccorso, dove la tecnica medica si intreccia con l’umanità, e l’empatia diventa una competenza imprescindibile. La sua storia è un inno al coraggio, alla empatia e resilienza e alla capacità di vedere oltre la patologia per prendersi cura della persona nella sua interezza.

    Nel prossimo e ultimo articolo ci concentreremo sul periodo Covid, un momento che ha messo a dura prova la capacità di resistere e di prendersi cura degli altri, spingendo i medici oltre ogni limite umano.

    Alla fine, quello che resta davvero è quanto hai saputo ascoltare, capire e accogliere nel momento del bisogno.

    Gianluca Macario
  • Coraggio e Umanità: da Manager a Medico d’Urgenza

    Coraggio e Umanità: da Manager a Medico d’Urgenza

    Da Manager a Medico d'Urgenza Gianluca Macario

    Coraggio e umanità sono le parole chiave di questa intervista a mio fratello Gianluca. È medico di pronto soccorso da oltre 13 anni. Questo articolo è il primo di tre parti. Racconta una storia complessa, suddivisa in sei argomenti con domande mirate.

    Come intervista a nostra madre, emerge il legame familiare. Questo arricchisce il dialogo e mantiene una prospettiva professionale. L’obiettivo è dare voce a storie di vita significative. Raccontare esperienze preziose, anche se i protagonisti non sono celebri.

    Ognuno di noi porta con sé scelte e vissuti difficili. Questi possono ispirare e creare connessioni emotive profonde. Questi racconti valorizzano il potenziale umano. Ogni persona ha qualcosa di valore da comunicare, anche attraverso momenti difficili.

    Chi è Gianluca Macario: Coraggio e Umanità

    Ho iniziato tardi il mio percorso in medicina, a quarant’anni. Prima ero dirigente aziendale e nutrizionista. Nonostante il successo, sentivo che mancava qualcosa. La nutrizione si basa su conoscenze mediche, ma non affronta patologie come ipertensione, diabete o infarto. Mi sono chiesto: “Perché non sfruttare la laurea in medicina per fare di più?”

    La svolta è arrivata con un evento tragico. Mentre lavoravo come medico di guardia a Turate, mi trovai coinvolto in un incidente in moto. Un ciclista perse la vita. Anche se non avevo colpa, quell’episodio mi segnò profondamente. Ero impossibilitato a soccorrerlo e la dottoressa del 118 mi confermò che il trauma era troppo grave. Da quel momento decisi di diventare un medico d’urgenza.

    Nei due anni successivi affinai la mia capacità di gestire le emergenze. Imparai a valutare, trattare e monitorare i pazienti senza inviarli subito in pronto soccorso. Questo approccio attirò l’attenzione della direzione sanitaria di Como, che riconobbe il mio modo di inquadrare le situazioni cliniche.

    Poi, una mia amica, direttrice sanitaria a San Donato, mi propose un’opportunità. Anche se avevo timori, accettai. Quei due anni di esperienza e il ricordo di non aver potuto agire in passato mi portarono a questa scelta. La medicina d’urgenza è diventata il mio modo di essere medico. Unire esperienza, preparazione e prontezza mi ha dato la consapevolezza di poter affrontare qualsiasi emergenza.

    Coraggio e Umanità in un Campo di Battaglia

    Un campo di battaglia. Sebbene sia contrario alla guerra, questa immagine rende bene l’idea del lavoro al pronto soccorso. Ogni giorno affrontiamo situazioni caotiche, spesso disperate, dove i pazienti portano con sé le conseguenze di una guerra personale: contro una malattia, un incidente, o anche contro la propria fragilità. Noi medici siamo lì, senza armi, ma con tutto ciò che serve per salvare e difendere la vita. È questo che ci distingue dai soldati: loro distruggono, noi preserviamo. Durante il Covid, questo aspetto è stato ancora più evidente. Eravamo davvero in prima linea, raccogliendo i cocci, ma sempre con l’obiettivo di proteggere ciò che conta di più, la vita.

    La Prima Notte in Pronto Soccorso: Vissuto ed Emozioni

    La mia prima esperienza in pronto soccorso è stata indimenticabile, un vortice di emozioni e sfide inaspettate. Durante un corso di psicoterapia, ci chiesero di raccontare un evento significativo della nostra carriera. Non ebbi dubbi: il mio primo turno in pronto soccorso rappresentava perfettamente la miscela di paura, eccitazione e incertezza che avevo provato.

    Ricordo che per un disguido, mi assegnarono un turno notturno anziché di giorno. Di giorno hai sempre il supporto dei colleghi, ma di notte sei solo. Non c’è un radiologo presente, i colleghi sono reperibili ma lontani. Ogni decisione pesa sulle tue spalle. L’ansia era tangibile, ma insieme ad essa avvertivo una strana energia che mi spingeva avanti.

    La mia fortuna fu incontrare un’infermiera straordinaria, una donna rumena con un’esperienza incredibile. Si era formata in una scuola infermieristica di altissimo livello. Mi prese per mano e disse: “Dottore, non si preoccupi. Segua le mie indicazioni e andrà tutto bene.” La sua calma e sicurezza furono un’ancora per me. Mi guidò non solo nelle procedure tecniche, ma anche nel mantenere la lucidità in un ambiente frenetico.

    Il mio background informatico e aziendale fu un altro vantaggio. Grazie a queste competenze, imparai subito a usare i software gestionali del pronto soccorso. Questo mi permise di ridurre il tempo dedicato alla burocrazia e concentrarmi sui pazienti.

    Quella notte non fu particolarmente impegnativa a livello clinico, ma lo fu emotivamente. Ogni paziente che arrivava mi ricordava l’importanza del mio ruolo. Ogni decisione era carica di responsabilità. La lezione più grande che porto con me è il Valore della collaborazione. Quell’infermiera è diventata una mia amica e ancora oggi ci sentiamo. Mi ha insegnato che in pronto soccorso non si lavora mai da soli. La fiducia e il sostegno del team sono fondamentali.

    La mia prima notte è stata una lezione di Coraggio e Umanità. Il pronto soccorso non è solo un luogo dove si salvano vite. È un posto dove si costruiscono legami profondi e indissolubili.

    Coraggio e Umanità: Da Manager a Medico D'Urgenza -Gianluca Macario
    Coraggio e Umanità: Da Manager a Medico D’Urgenza -Gianluca Macario

    Valore dell’Esperienza v/s Titoli Accademici

    La sfida più grande? Confrontarmi con un mondo accademico che valorizza i titoli più dell’esperienza pratica. Mi sono laureato a 40 anni, mentre molti colleghi completano il percorso a 26. Hanno specializzazioni e master, un vantaggio che ho colmato con la pratica. Ho recuperato con una velocità che definirei straordinaria.

    Prima della laurea, avevo già esperienze significative. Ho collaborato con ambienti iper-scientifici come Micromedexe pubblicato articoli su riviste internazionali, tra cui il British Medical Journal. Una di queste pubblicazioni è diventata la mia tesi. Queste esperienze hanno rafforzato la mia base teorica, ma non hanno cancellato quel senso di inferiorità verso chi aveva seguito un percorso accademico tradizionale.

    Entrando in pronto soccorso, ho sentito il peso di questo pregiudizio. Alcuni datori di lavoro vedevano la mia età come una debolezza, come se l’esperienza valesse meno di un titolo. Ma ho scelto di rispondere con i fatti. Negli anni ho trattato migliaia di pazienti, affinando la capacità di valutare e gestire le emergenze con efficacia.

    La pratica quotidiana mi ha insegnato che la competenza non si misura solo con i titoli. Conta la capacità di affrontare ogni situazione con lucidità e responsabilità. A volte il confronto con i giovani specialisti è stato una sfida, ma molti di loro hanno riconosciuto il valore della mia esperienza. Hanno scelto di confrontarsi con me per arricchire la loro formazione. Questo è il riconoscimento più grande, quello che ripaga ogni sforzo.

    Alla fine, la medicina è fatta di preparazione, dedizione e risultati concreti. Ed è questo che porto con me, ogni giorno, nel mio lavoro.

    Coraggio e Umanità: La Verità Narrativa di Gianluca

    Questo primo capitolo dell’intervista, “Coraggio e Umanità: da Manager a Medico d’Urgenza”, ci ha guidato attraverso le scelte e i momenti iniziali che hanno plasmato il percorso di Gianluca. La sua storia è una testimonianza di Coraggio nel reinventarsi e di Umanità nell’affrontare ogni giorno il pronto soccorso con dedizione e passione.

    Per raccontarla, ho adottato il metodo delle Biografie Pedagogiche, basato su un ascolto attivo e una trascrizione fedele delle parole dell’intervistato, senza interpretazione. Questo approccio rispetta e valorizza la Verità Narrativa, quel sapere personale e condiviso che attraversa il tempo, preserva la memoria e l’autenticità delle esperienze umane.

    Nel prossimo capitolo esploreremo le difficoltà e le sfide che Gianluca ha affrontato, scoprendo come ha saputo trovare equilibrio tra empatia, resilienza e pragmatismo.

    Non perdere il seguito di questa storia di Coraggio e Umanità, che ti emozionerà e ispirerà.

#esperienzanarrata
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